Dilemma dilemma. E’ giusto confrontare, paragonare, mettere uno di fianco all’altro i due capitoli di Avantasia? Oppure bisogna semplicemente vedere questo secondo disco come se fosse la stessa cosa, un naturale proseguio dell’album uscito ormai due anni fa?
La verità, si sa, sta nel mezzo, ed anche questa volta il famoso detto finisce per avere ragione. Si perchè fondamentalmente le due parti sono in realtà una cosa unica, scritta, arrangiata e registrata nello stesso periodo e negli stessi studi. Però non è uscito un album doppio ma due dischi distinti e separati, per di più con una notevole pausa nel mezzo. Per cui, quale pietra di paragone migliore per il secondo capitolo se non il primo?
Orbene, metto subito in chiaro che le differenze ci sono e sono anche abbastanza marcate, per quanto possano esserle quelle fra due gemelli. Fondamentalmente aleggia un’atmosfera ancora più marcatamente teatrale, quasi più da musical rock che non da disco di power metal in senso stretto. Sia chiaro, non aspettatevi qualcosa di simile a un Jesus Christ Superstar, ci mancherebbe altro, ma ciò nonostante la sensazione rimane.
Dopo il breve e solito intro con tanto di cori e controcori, non si parte a raffica con The Seven Angels. Avete letto bene, fortunatamente non è la solito song velocissima sparata a mille, ma una up-tempo assolutamente affascinante. Una strofa fantastica e un ritornello trascinante come pochi sono i punti forti della prima parte di questa canzone. Impossibile non cantare l’attacco delle strofe assieme ad Oliver Hartmann, o ad un sempre straordinario DeFeis. Ed ovviamente c’è spazio, e che spazio, per il redivivo Kiske e per il patron del progetto, Tobias Sammet.
La seconda parte invece, dopo un interludio tirato, si calma ma sembra comunque quasi un’altra canzone. Non capisco infatti perchè non sia stata spezzata… in ogni caso questo momento della canzone esprime molto chiaramente il concetto di atmosfera teatrale a cui avevo accennato poco sopra, in cui si inseriscono magnificamente i due “folletti” Kai Hansen e Andrè Matos.
15 minuti che passano in piacevole fretta, quelli dedicati a The Seven Angels, che lasciano spazio alla seguente No Return e ai suoi tempi da classica speed-song.
La teatralità entra di nuovo in scena con l’arrivo del grandissimo Bob Catley, cantante dei Magnum, gruppo hard-rock dalle forti tinte epiche. The Looking Glass beneficia assolutamente della sua presenza, e rimane come uno dei momenti più belli e riusciti di tutto l’album, così come la seguente In Quest For.
Con The Final Sacrifice si torna su ritmi più tirati e un riffing aggressivo. Qui a farla da padrone è di nuovo il grandissimo David DeFeis, che si trova perfettamente a proprio agio con le linee vocali scritte da Sammet.
Ecco, se c’è davvero un complimento sincero da fare a Tobias è proprio questo: è riuscito, come un provetto sarto, a cucire un abito perfettamente a misura per ogni suo ospite. Ad esempio, ascoltando le strofe di Kai Hansen vi sembrerà di sentire i Gamma Ray, con DeFeis invece le atmosfere si fanno più cupe ed epiche e vi troverete proiettati quasi in un album dei Virgin Steele. E così via per tutti gli altri.
Rendiamo davvero merito a Tobias Sammet di tutto ciò, perchè è riuscito ad amalgamare tutto questo senza stonature.
Invece per chi conosce l’ultimo album degli Edguy, Mandrake, l’attacco di Neverland risulterà senza ombra di dubbio molto familiare. E’ praticamente identico infatti a quello di All The Clowns: ovviamente non si può parlare altro che di auto-plagio, essendo state scritte entrambe le canzoni dallo stesso autore. Ciò all’inizio mi ha infastidito e non poco dato che odio i plagi in generale, e soprattutto se avvengono fra lo stesso autore e nel giro di pochi mesi! E’ una cosa che ritengo fuori dal mondo, e che ha marcato in maniera pesantemente negativa questa canzone. Ciò nonostante dopo un po’ di ascolti la canzone riesce ugualmente ad entrare in testa, e magari vi ritroverete come me a canticchiarla mentre passeggiate.
Cosa che invece non capiterà quasi sicuramente con Anywhere, classica ballatona strappalacrime che cerca, inutilmente, di eguagliare i fasti della splendida Farewell, presente nel primo capitolo di Avantasia. Sicuramente è il punto meno azzeccato dell’opera nel suo completo.
Cambio completo di registro, sia dal punto di vista della velocità che della qualità, per Chalice of Agony, altra speed-song ma con un chorus a dir poco enorme, per maestosità, pomposità e bellezza. Ritornello che fa il paio con quello di Memory, dove Ralf Zdiarstek si scatena letteralmente. Un finale col botto quindi, calmato solo un po’ dal bell’outro Into the Unknown dove fa la sua seconda breve apparizione l’ammaliante Sharon Den Adel.
Spero non sia necessario il solito “riassuntino” finale… com’è il disco è già abbondantemente spiegato e per avere davvero un sunto basta gettare un occhio al voto. Buon ascolto!