Il disco di cui sto per parlarvi è un disco molto controverso, un disco che tantissimi (soprattutto in “ambito metal”) criticano e che parecchi altri (soprattutto in “ambito wave”) invece acclamano, un disco che, diciamolo subito, a me piace moltissimo.
Uscito nel 1999, “Host” ha subito spaccato in due il pubblico: da una parte una buona fetta dei vecchi fan dei Paradise Lost ha gridato allo scandalo per l’abbondanza di elettronica presente (con la conseguente perdita di importanza per le chitarre) e per l’orecchiabilità dei pezzi, dall’altra molta gente che prima non aveva mai ascoltato i lavori degli inglesi è rimasta affascinata da questo album. Del resto era difficile immaginarsi una reazione differente, sebbene infatti la band avesse già abituato il proprio pubblico ai “mutamenti di pelle”, tuttavia mai c’era stato un distacco così forte dal metal (il precedente “One Second” introduceva già forti elementi elettronici, ma aveva comunque un retrogusto metallico che in “Host” è poi praticamente sparito), inoltre se consideriamo che per la scena doom/gothic i Paradise Lost sono stati uno dei gruppi più seminali è ancora più facile capire come questa svolta possa essere stata accolta con ostilità (pezzi quasi ballabili da parte di una band che ha posto le basi del gothic doom, la mutazione è sconvolgente)… a prescindere da tutti questi discorsi comunque il disco resta secondo me molto valido.
I 13 pezzi che lo compongono sono infatti ispirati ed omogenei tra loro (danno una sensazione di “unità” al disco, anche se chi non lo apprezza dice che più che altro danno una sensazione di monotonia), le influenze si sentono ma sono rielaborate in ottica personale (tanti considerano “Host” un clone dei dischi dei Depeche Mode, tuttavia mi pare che l’impronta dei Paradise Lost sia bene evidente, anche se è chiaro che un lavoro come “Ultra” ha ispirato la composizione di queste canzoni), riempitivi non ce ne sono. Se proprio devo consigliare qualche pezzo in particolare non posso non citare l’ammaliante “Ordinary Days”, la ritmata “Made The Same”, la teatrale “So Much Is Lost” o l’atmosferica “Nothing Sacred” (contenente dei notevoli inserti suonati da un’orchestra di archi, orchestra che si fa sentire anche su altre canzoni del disco, tra l’altro). Come noterete molti dei brani citati si trovano all’inizio dell’album, ed infatti la prima metà del lavoro è migliore della seconda, tuttavia ribadisco ancora una volta che tutte le canzoni sono meritevoli di ascolto.
Insomma, “Host” è un disco coraggioso e bello che personalmente mi sento di consigliare (dalle righe soprastanti comunque dovreste capire se fa per voi o meno), peccato che la band dopo le critiche ricevute abbia fatto una parziale marcia indietro producendo album a mio avviso inferiori… in ogni caso io adesso me lo riascolto dall’inizio per l’ennesima volta…

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