Ritrovarsi, dopo una decina di giorni, a dover partire dalla traccia numero 7 per riuscire finalmente ad ascoltare anche la seconda parte di un disco, non è decisamente un buon segno.
Purtroppo l’infame sintomo si è manifestato senza possibilità di appello nel caso di questi Faith and Fire, “supergruppo” composto da due musicisti legati ai Riot e da altri due nomi importanti della ribalta hard rock, Danny Miranda e John Miceli: l’omonima “Faith and Fire” ha difatti sempre impietosamente calato la mannaia su ogni mia velleità di concludere l’ascolto in una sola sessione.
Ma la colpa non è (purtroppo) imputabile soltanto alla suddetta insopportabile nenia, bensì alla generale mancanza di grinta, fascino ed ispirazione che affligge la maggior parte dei sessanta interminabili minuti di questo debutto.
Mike Flyntz non è Mark Reale, ma parrebbe svolgere il suo compito in maniera più che dignitosa, offrendo dei riff e delle melodie chitarristiche tutt’altro che da scartare; il talento di Miranda (negli ultimi anni bassista dei Blue Öyster Cult, ora in forza alla “reunion” dei Queen) non è mai stato in discussione; se Miceli, infine, è stato scelto come tour drummer da Meat Loaf, un buon motivo c’è sicuramente.
Perché quindi il disco non decolla? Tony Moore (voce dei Riot su “Thundersteel” e “The Privilege of Power”) ci mette invero un po’ del suo cimentandosi con stili a lui decisamente non congeniali (“Avenue Z”, le inespressive ballad “Breathe” e “Angel”), trovandosi interprete di linee vocali poco felici (la tediosa “Ashes”, “Accelerator”) ed offrendo nel complesso una prova che non passerà certo agli annali, ma quello che realmente affossa il disco sono nient’altro che le composizioni stesse: stanche, stiracchiate, una serie di canzoni tira-e-molla che alla fin fine rimangono costantemente un passo indietro e non riescono quasi mai a varcare la soglia della sufficienza.
Le uniche eccezioni sono “Everything”, col suo cantato alla Halford vecchia maniera e la sua dinamica per una volta priva di cali, “Villanelle” (non a caso composta da Miranda), dai toni teatrali e reminescenti dei Blue Öyster Cult a cavallo fra ’70 ed ’80, e volendo “Fallen”, che più si avvicina manco a dirlo ai Riot del periodo Moore.
Ciononostante, il risultato è in ogni caso un disco deludente (visti i nomi in oggetto) e decisamente sotto le aspettative, che per quante possibilità gli si diano non cattura mai, viene ben presto a noia ed alla lunga diventa persino estenuante: personalmente, togliendo fra poco per l’ultima volta il cd dal lettore, proverò senz’altro una sensazione di sollievo.