“Un disco importante e inutile”. Questa è solo una delle frasi promozionali che citeremo nel proseguo della recensione, tanto è il loro potere evocativo (ed esplicativo) su quanto effettivamente i nostrani Yak abbiano creato.
‘Iron Flavoured Candies’ è il secondo aborto neurotico della compagine, oggi più che mai impegnata in una sorta di post metal sperimentale e malato. La rabbia, la frustrazione e il nichilismo come manifesto sonoro (e di vita) di cinque ragazzi italiani, in preda alla più disperata crisi psicotica che abbiano mai conosciuto. Tutto ha un senso in un disco in cui ogni cosa sembra andare fuori posto, quasi alla disperata ricerca di un appiglio logico e razionale. L’onda è travolgente e il risultato inevitabile. Saltano gli spazi, i tempi e le strutture metriche di queste undici (diciamo) canzoni: ogni influenza sonora che si incontra in questo collage chiamato ‘Iron Flavoured Candies’ seppellisce la precedente in un vortice di parossismo sonoro del tutto irreparabile. “L’intero album è un affresco postmoderno violento, rozzo, ostico, ostile, complesso come un libro di Borges e angosciante come un film di Cronenberg”. Un agente patogeno che si insinua negli spazi reconditi del sistema nervoso e ne avvinghia le strutture di base, fiaccandone la resistenza in maniera lenta e inesorabile. La resa è dietro l’angolo e la compagine ha fatto davvero di tutto per renderne il più doloroso possibile l’andamento. “Anche perché gli Yak sono prima di tutto una famiglia. Una famiglia vera, dove ci si sputa addosso, dove le guerre si fanno tutti assieme, dove ci si perde spesso e ci si ritrova sempre, una famiglia con la quale non passeresti un weekend al mare ma l’apocalisse si. Una famiglia come la vostra, insomma. Quella degli Yak vi sta dando le chiavi della porta sul retro. Voi entrate, cercate di non farvi notare e state a guardare – anzi a sentire – cosa succede.