Nel corso dell’anno 2007 Michael Sadler, storico singer e fondatore dei canadesi Saga, decide di porre fine, seppur amichevolmente, alla sua partecipazione all’interno di una compagine che (prog)musicalmente parlando aveva saputo crearsi negli anni un suono del tutto personale e si era assicurata un notevole ed affezionato seguito di proseliti. Che l’abbia forse fatto, come recitano i comunicati ufficiali, per dedicarsi a nuove sfide, sia personali che artistiche? Chi può dirlo con certezza. Certo è che nonostante lo scombussolamento che questa notizia ha potuto provocare all’interno del fan-world, i Saga sono sempre più convinti di non farsi travolgere dagli eventi e di andare avanti per la loro strada visto che, in quanto a talento e creatività, hanno solo e soltanto da insegnare. Ed eccoci al presente, l’anno 2009, al quale potremmo mentalmente scrivere a fianco le seguenti semplici parole: Rob Moratti (il nuovo singer) e The Human Condition (il nuovo album).
La prima del lotto è subito la title-track, strumentale al 99% nella quale veniamo indirizzati in modo deciso sulla strada di un neo-progressive rock dai suoni estremamente cristallini. La produzione emerge fin da subito di primo livello (uno standard ormai in campo prog, così come per l’etichetta Inside Out) e gli intrecci tastiera-chitarra sono sempre molto ben congegnati anche se una certa linearità compositiva e vari ghirigori strumentali alquanto sterili non lasciano presagire nulla di buono. Che si abbandonino però i pregiudizi: ogni lavoro va preso e criticato (nel senso più aulico del termine) con onestà intellettuale ed umiltà, senza troppi pensieri. Ed ecco che Step Inside si fa strada fra suoni sintetici e tinte oscure. Starebbe bene come suono ufficiale del futuro. Anche il nuovo cantante, proveniente dai Final Frontier e dotato di una voce acuta e sottile, dà il meglio di sé in fase interpretativa pur avendo un feeling ed un timbro molto differenti rispetto al carismatico Sadler. Forse meglio così. Inutile rincorrere una storia che si è interrotta forzandone artificialmente la ciclicità ed è assodato che i fratelli Crichton cerchino dichiaratamente di spingersi oltre, soprattutto in quanto a dose prog. Ci crediamo? Almeno in parte. Si tratta pur sempre di uno stile timbrato Saga, con richiami ed assonanze Genesis, spiccatamente groovy, diventato forse un pelo troppo moderno, troppo “neo”. Spesso si fa uso dell’elettronica e si spinge sui suoni “modaioli” del progressive attuale, che diventano patinati e dolci come nella melodicissima Hands Of Time per poi votarsi improvvisamente a vaghe dissonanze ed a melodie non immediatissime (You Look Good To Me, Avalon) in un metaforico ossimoro musicale continuo. Talvolta compaiono pure le visioni sonore sincopate dei cervellotici Magellan ed i virtuosismi in stile Yes dei Flower Kings di Roine Stolt. Troverete cambi di tempo, di tonalità, fusion e perfino pop, ma sempre senza entrare nell’eccesso. Il prog è anche commistione di generi, non è vero? Forse però ciò che manca a questo disco sono proprio le chitarre, il rock, l’hard. Insomma la “potenza” del riff. Cosa che forse accade soltanto nella frizzante Let It Go, nella quale finalmente si recupera oltre all’energia anche un poco di ciò che veramente esalta l’appassionato di musica “colta”. Ovvero il flavour prog, quello autentico, fatto di domande e di risposte recitate a suon di controtempi, ma anche di pause di riflessione, di monologhi e di viaggi cerebrali nel tempo e nello spazio. Un insieme, ormai sempre più raro, di tecnica, anima e cultura. Però quando il tutto diviene troppo commerciale, frettoloso, e della vecchia saggezza rimane soltanto il guscio più esterno, anche l’ascolto ne viene intaccato, finendo per scoprirsi mutilato, indefinito.
I Saga sono a tutti gli effetti dei veterani della scena e compongono da innumerevoli anni. Non sono certo le qualità degli arrangiamenti o delle parti strumentali che mancano. Sarà l’abbandono di Sadler e la conseguente possibile interruzione di quell’atmosfera magica che si era creata all’interno della band, non so. Il fatto è che questo The Human Condition fatica a rimanere in testa e alla lunga stanca. Non che sia complesso (non stiamo parlando mica dei Gordian Knot o dei Liquid Tension Experiment) è proprio il feeling a mancare, a favore di una fredda maestranza. Sarà per la prossima volta, ne sono sicuro. Per ora solo un sei “politico”, per meriti di carriera.