C’era attesa nell’ ambiente metal italico per la nuova uscita discografica dei Kenos, band meneghina che negli ultimi anni più di altre ha saputo crearsi un seguito mediatico e di pubblico grazie ad un death metal miscelato a industrial e gothic affascinante e complesso.
I nostri arrivano dal buon successo di critica di “The Craving”, precedente lavoro della band, e con questo nuovo lavoro sembrano alzare la famosa asticella ancora più alto, giocando con i fans e con se stessi alla ricerca di una musicalità e sonorità sempre più peculiare e personale.
Esercizio complesso che spaventa il più delle volte le band nostrane, che si ritrovano a dover affrontare un pubblico da educare, chep referisce band quasi cover dei grandi nomi piuttosto che gruppi più “sperimentali”.
E così eccoci ancora una volta in mano un lavoro composto da dieci tracce pesantissime e articolate, non semplicissime da ascoltare ma sicuramente riuscite, che fondono in un ambiente comunque cupo, grigio e fuliginoso, riffoni veloci e pesantissimi, doppiacassa quasi “black style”, cori e voci sovrapposte intriganti e intraprendenti, e continui cambi di voce, tonalità e rapidità dei brani, arricchiti quà e là da inserti di vocals femminili tristi e malinconici, e dalla voce clean che tanto ricorda ICS Vortex ai tempi dei Dimmu Borgir.
Un album a metà tra Rammstein e Dark Tranquillity, ma con musiche ancora più complesse se possibile, per un risultato che certamente richiede più di un ascolto per poter raggiungere la massima assimilazione , ma che convince appieno e appaga l’ascoltatore, mai lasciato nel limbo della noia e che certamente allontanerà da sè quel vago senso di “già sentito” che purtroppo spesso accompagna le nuove uscite discografiche in ambito death.
E così, se l’opener “Room Sexteen” appare certamente uno dei brani più riusciti dell’intero lavoro, con una struttura che parte rapida ma cresce ancora con il passare dei minuti, le successive song paiono scorrere nella medesima direnzione con continuità, andando (se proprio si vuole trovare un difetto a questo lavoro), ad essere a volte addirittura ridondanti di suoni da risultare un po’ pesanti e difficilmente assimilabili.
Peccato comunque veniale, poichè il lavoro nella sua interezza coinvolge e chiama al pogo, soprattutto in brani quale la title track, mix tra Slayer e Heaven Shall Burn, rallentata nella sua parte centrale dopo la sfuriata iniziale.
Un buon lavoro, valeva la pena aspettare tre anni.