Un caloroso benvenuto a Ivan Giannini sulle pagine di Heavy-Metal.it! Una delle voci più acclamate del nord Italia e non solo.
Identikit di Ivan, dalle origini al primo impatto con le sette note
Sono nato in una freddissima mattinata di gennaio di tanti anni fa.
Dalla scoperta ai primi passi verso la tua formazione. Cosa ha generato in te il “sacro fuoco”, e chi ti ha insegnato a disciplinarlo. Solitamente, l’incontro con la musica avviene attraverso una folgorazione: ascoltiamo per la prima volta qualcosa che ci dà uno stimolo, come un’epifania. Quella tal melodia, quel musicista, quello strumento specifico… è come se all’improvviso illuminasse una parte del nostro essere fino a quel momento rimasto in ombra, ma che in realtà era sempre stato lì, e aspettava solo di essere risvegliato. Raccontaci di come sia avvenuto questo, in te
Rispondo a queste due domande assieme. Fino agli 11 anni l’unica forma di musica che mi faceva provare qualche tipo di emozione era la colonna sonora delle fiabe sonore. Ascoltavo e riascoltavo le mie cassette e leggevo i fascicoli illustrati che le accompagnavano. Imparavo a memoria le favole e le recitavo in classe ai compagni delle elementari. C’erano colonne sonore molto efficaci che assieme alle voci di grandi doppiatori e attori teatrali erano in grado di farti piangere, di darti la sensazione di essere un eroe o di farti provare così tanta paura da spingerti a nascondere la testa sotto il cuscino. Ovviamente erano le sensazioni di un bambino. Ascoltavo anche con grande trasporto la colonna sonora di “Phenomena” di Dario Argento saltando però i brani dei Motorhead (motorbreath) e dei Maiden (Flash of the blade) che da bambino mi inquietavano per via dei suoni della chitarra. In tutto questo mi piaceva tirare giu ad orecchio le melodie di certe canzoni che passavano alla radio o in televisione su una tastierina giocattolo. Mio nonno materno, che aveva suonato la fisarmonica fino ai vent’anni e anche inciso un disco in Rai sotto la guida di Gorny Kramer (cercare su wikipedia…), notando che avevo orecchio provò ad insegnarmi un po’ di musica partendo dal solfeggio, ma, ovviamente fece un buco nell’acqua.
I primi dischi che comprai autonomamente furono “Peter Pan” di Enrico Ruggeri e “King Of Bongo” dei Mano Negra usciti entrambe nel 1991. Li comprai con vergogna, avendo la sensazione di fare qualcosa di proibito, quasi stessi chiedendo, io ragazzino, una confezione di preservativi. La proprietaria (carina) del negozio di dischi posò sul bancone le cassette con estrema noncuranza aumentando in me la sensazione di essere entrato in un luogo proibito. Forse ho iniziato in quel momento ad emozionarmi profondamente e “dal basso” per la musica.
Ho però deciso che in qualche modo la musica sarebbe diventata parte di me solo quando vidi per la prima volta gli Iron Maiden in video. Tanto mi infastidiva il loro suono da bambino quanto a tredici anni mi sconvolse al punto da farmi capire cosa avrei voluto essere e chi in fondo ero sempre stato nel profondo. Alle medie, come è capitato a molti, ero totalmente out, solo e timidissimo. Non sentivo di appartenere a nessuna tipologia umana particolare, non avevo alcun interesse condiviso con i miei compagni, non avevo grossi argomenti di conversazione con nessuno, non uscivo al pomeriggio, non seguivo alcuno sport popolare. Amavo studiare, e a quell’età è sicuramente da sfigati, mi piaceva leggere, scrivere, andare a pesca con mio padre, fare canottaggio. Se non fosse stato per mia stazza sarei stato la tipica vittima del bullismo di periferia.
In qualche modo, ascoltare per la prima volta “Be quick or be dead” ha dato forma alla sensazione che di me stesso avevo in modo confuso. Mi sono specchiato in quei musicisti e mi sono riconosciuto e la loro musica era la concretizzazione di una voce che avevo dentro, ma che non riuscivo né a sentire bene né a tirare fuori. Mi percepivo diverso e in qualche modo un individuo ben definito rispetto agli altri, ma non capivo perché… fino a quel momento.
Insomma, mi sono detto: devo diventare come loro e assieme a Fear of the Dark mi sono comprato una chitarra acustica da quattro soldi.
I momenti salienti della tua espressione artistica.
Come detto inizia suonando la chitarra. Il mio obiettivo era di diventare un bassista. Sono passato al canto per caso. Non che in casa non amassi cantare. Ho sempre cantato, fin da bambino, e anche con grande compiacimento del vocione che riuscivo a tirare fuori, ma non avevo e non ho tutt’ora la faccia tosta di definirmi , con leggerezza, “cantante” prima che musicista. Sono un musicista imprestato al canto, non amo particolarmente il mio timbro e la mia “r” moscia mi imbarazza quanto mi imbarazzerebbe passeggiare nudo per via Garibaldi il sabato pomeriggio. Sono così imbarazzato che quando mi chiedono cosa suono rispondo che faccio il bassista per evitare di pronunciare “erre” vergognose.
Ma tu mi chiedi dei momenti salienti …e a me viene in mente che forse cantare davanti a qualche milione di Italiani in prima serata su rai 2 un pezzo in Italiano pieno di “R” affrontando in questo modo una vergogna per me così grande è stato un momento saliente.
Tralasciando il fatto di aver militato in decine di gruppi e suonato con almeno un centinaio di musicisti diversi ha la sua rilevanza lo spartiacque fra il brancolare e andare a naso lungo la strada verso il diventare un musicista e il vederci più chiaro è stato l’aver frequentato il Cet, la scuola fondata da Giulio Rapetti Mogol. Mogol, pilastro della cultura musicale e pop italiana.
Mio padre mi sfidò a scrivere canzoni in Italiano e partecipare a qualche concorso canoro. “Dimostrmai che vuoi davvero fare il musicista” , disse.
Io scrissi assieme al mio amico e compositore Charly Urso tre oquattro canzoni in Italiano e partecipai al concorso canoro nazionale “Senza Etichetta” che si tiene ogni anno a Ciriè. Vinsi il primo premio che consisteva in una borsa di studio per la scuola di Mogol.
Lì imparai ad ascoltare e a dividere il mondo dei cantanti in scarti, coristi, e artisti. Iparai grosso modo a capire quando un musicista ha qualcosa da dire o quando potrebbe dedicarsi tranquillamente a qualche altro hobbie senza far piangere nessuno; ho imparato a distinguere la musica onesta da quella disonesta o semplicemente vuota e manieristica.
L’unica presunzione e forma di arroganza che mi attribuisco è questa. Nel calderone di tutta l’immondizia musicale che in ambito rock e metal sento produrre so distinguere ciò che è utile da ciò che è inutile. Siamo invasi da spazzatura musicale. Il mercato è saturo di gruppi di qualità infima come un cielo pieno di detriti spaziali che no lascia passare i raggi del sole. Il buono c’è ma è soffocato da immondizia cosmica. Non tutto ciò che ho pubblicato io è meritevole di esistere. Dei dischi che ho pubblicato salvo cinque o sei canzoni. Non di più. Tutte le band nei loro dischi pubblica canzoni per allungare il brodo, ma qualche boccone di carne una volta si trovava pù facilmente. Oggi il 90% dei dischi che escono è acqua color piscio. Annoiano dopo trenta secondi di ascolto. Ahimè in nell’ambito della musica pop, elettronica e indie è più facile trovare prodotti interessanti, onesti e originali. Quanti gruppi escono con singoli di cui non si riesce a intuire dove sia la strofa, dove il ritornello, dove uno special? Non si tratta di suonare prog, si tratta di non avere la minima capacità di dare forma e coerenza ad una intuizione musicale. Totale incapacità di scrivere una melodia non dico forte da diventare un singolo pop spacca classifiche, ma almeno da poter fare fischiettare alle quattro o cinque persone che ti seguono.
Divagazioni a parte, frequentare Mogol personalmente e studiare nella sua scuola mi ha aperto la mente, il cuore e indicato chiaramente la strada trasformandomi in un abbozzo di musicista onesto. La strada verso l’onestà artistica non ha fine, ma sul quel percorso cammino instancabile.
Cantare, suonare… Magari in un primo momento, si canta e si suona qualcosa in cui ci si identifica, nella musica si trova un che di sè stessi, ed è come sentirsi parte di qualcosa, come se qualcuno abbia già espresso e celebrato i tuoi sentimenti. Quand’è stato il momento in cui si sono invertiti i poli? Cioè, quando hai cominciato a dare TU espressione e voce al TUO mondo, attraverso la TUA creatività?
La potenza è nulla senza il controllo. Eheheh! Lungo il tuo percorso di “studio”, quali sono state le “lezioni” che ti hanno dato di più? Sia a livello personale che tecnico
Sono autodidatta. Canto da almeno 23 anni e ho preso circa sei mesi di lezioni di canto quando avevo 17 anni. Da Mogol non ho studiato tecnica vocale. Ho solo cantato, subìto molte critiche e ascoltato molta musica. La cosa più utile negli anni è stata suonare dal vivo e registrare canzoni.
Suonare dal vivo è imprescindibile. I gruppi da sala prova non sono gruppi. La studio band non sono band. L’ arte, se Arte, è sempre comunicazione. La forma d’arte “Musica” trova la sua sostanza solo quando è ascoltata; l’ascoltatore è sempre protagonista della performance musicale stessa: occupa e riempie lo spazio in cui risuona la musica, trasmette feedback istantanei al musicista influenzandone l’esecuzione, determina spesso il contenuto del messaggio musicale. Suonare dal vivo significa imparare a conoscere e gestire la propria interiorità, significa imparare a “dare” e a “ricevere”. Suonare dal vivo forma il musicista “onesto”.
Registrare e ascoltarsi con orecchio critico affina l’ utilizzo preciso e coerente del proprio mezzo espressivo, qualunque esso sia.
Registrare canzoni, correggersi, registrare ancora e ancora, passare giornate su una sola strofa, fare severa autocritica, lavorare sui dettagli più fini è la sola maniera per crescere dal punto di vista tecnico e stilistico. Ascoltare con attenzione i classici e chiedersi sul perché suonino in modo così efficace, come ogni attacco, ogni coda ogni vibrato sia al posto giusto nel momento giusto e poi applicare lo stesso ascolto attento alle proprie registrazioni porta all’eccellenza. La strada ovviamente non ha fine e io sono sempre in cammino seguendo però questa bussola. Bruce Dickinson ha registrato per sei ore l’attacco di “the number of the beast”…
Tecnica vocale: quanto questo skill ha inciso sul tuo percorso?
Dal mio punto di vista ho un brutto timbro di partenza. Ho una voce vagamente da ragazzino ancora oggi che sono decisamente maturo. I miei pregi sono il volume e l’estensione. Non saprei dirti di preciso quante ottave ho, perché bisognerebbe fare distinzione fra i diversi registri, ma ne ho abbastanza per cantare tanto Johnny cash quanto le cose più alte dei Judas e degli Acdc.
In ogni attività umana è importante classificare e dare un nome a cose e fenomeni. Ho imparato ciò che di tecnico conosco circa il canto, nomi delle tecniche, meccanica dell’apparato fonatorio parlando con altri cantanti, guardando video su youtube e da un manuale di una logopedista famosa nella riabilitazione vocale conosciuta da Mogol. Oggi va di moda parlare di “belting”, “tweng”, “registro misto”… io preferisco pensarla inq uesto modo. Canta più che puoi, impara a conoscere e riconoscere le reazioni del tuo corpo quando canti determinate note o frasi musicali, impara a controllare i muscoli coinvolti nel canto come un qualsiasi sportivo fa nella sua personale disciplina, e soprattutto chiediti se il suono che produci è adatto, credibile e coerente rispetto alla musica che stai cantando.
La musica e soprattutto un cantato può essere ascoltato a più livelli. Che cos’è per te l’interpretazione?
So che cosa non è. Nell’istante in cui cerchi di interpretare smetti di essere te stesso, passando dal canto alla recitazione dozzinale. Cantare è un atto di libertà e di affermazione di se stessi. Cantare è una corsa urlando a squarciagola per un prato. Cantare è il battere i piedi del bambino che fa i capricci. Cantare è Libertà e affermazione della propria volontà. Nient’altro. Senza sovrastrutture concettuali e tecniche all’atto della performance, canti in libertà, sei te stesso e di conseguenza, alle orecchie e agli occhi interiori di chi ascolta, interpreti, fai tuo, il brano, manifesti te stesso, fai capire al mondo chi sei. Tutto il resto è imitazione, nella peggiore delle ipotesi, caricatura o emettere suoni in modo anonimo, senza manifestare nessuna anima in particolare, nemmeno la propria.
Interpretare non significa conoscere se stessi e raccontare ciò che si è sul palcoscenico. Significa semplicemente essere una cassa di risonanza per le note. Azzerare i pensiero e lasciarsi andare. Basta osservare e ascoltare i grandi di ogni genere musicale e paragonarli ai gregari per capire cosa intendo dire. Se vuoi ti faccio degli esempi più concreti….
Rileggendo le domande e le risposte, si potrebbe dire che il canto, non in quanto dote, piuttosto come espressione, sia qualcosa che parte da quei famosi 21 grammi che ci animano, e che si concretizza attraverso i chili di materia finita che ci definiscono. Una sorta di divino che si concretizza grazie alla materia. Più che un atto, un espressione di un particolare momento. Ho capito bene o faccio uso di sostanze psicotrope?
Risposta: io non tirerei in ballo parole come anima. Quando sento parlare di Anima riferendosi a cantanti pressoché sconosciuti mi vengono in mente i coach dei talent show che tirano in ballo la parola in questione per giustificare errori, emotività fuori controllo o scelte discutibili del concorrente. Io credo che cantare con personalità e in modo autentico sia paradossalmente il contrario che esternare la propria anima…almeno… non volontariamente. Io credo che sia anzi svuotarsi, annullarsi e indossare la maschera adatta. Credo che un bravo attore di teatro sappia meglio di me spiegare questo concetto. La sensazione che io ho quando canto e quando le serate girano come devono, è di totale annullamento. Zero pensiero, zero consapevolezza. Le sensazioni le provi direttamente sulla pelle senza renderti conto della risposta epidermica allo scambio di emozioni che sta avvenendo fra te e il pubblico. Ovviamente…la premessa è cantare le canzoni giuste, canzoni scritte bene.
Sul video…
Ho scritto la canzone un paio di anni fa. Non mi capita quasi mai ma in 10 minuti avevo praticamente il pezzo completo. Scrivere il testo è stata un impresa più dura. Ho impiegato circa due anni e cinque o sei demo differenti prima di trovare le parole che suonassero bene con l’arrangiamento e gli strumenti.
Il tema della canzone era chiaro fin da subito. La prima stesura del testo è nata qualche ora dopo la composizione della musica, ma trovare le parole che suonassero bene istante dopo istante e si amalgamassero con il suono degli strumenti dando un’idea di fluidità e leggerezza è stato difficile per me. E’ la prima volta che faccio attenzione al suono delle parole in relazione al mood del brano e agli strumenti che stanno suonando. Sono totalmente soddisfatto del risultato.
Ho scelto Lost come singolo che anticipa l’uscita dell’ album solista perché penso sia una buona canzone. Gli altri pezzi in uscita sono decisamente più veloci e powermetal oriented, ma in generale il sound e il tipo di arrangiamenti è in linea con il singolo. La canzone perla di abbandono e dello stato d’animo di chi deve ricominciare una parte della sua vita da principio partendo dal mettere in ordine i propri ricordi.
Cosa ti ha portato alla partecipazione a THE VOICE OF ITALY? Quest’esperienza cosa ti ha lasciato a livello interiore ed artistico? Ritieni di aver espresso chi sei?
The voice mi ha dato un po’ più di coraggio e di autostima. Chi è abituato a vedermi sul palco non immagina che nella vita sia piuttosto chiuso e molto molto timido. Andare a The voice ricevuto dopo le apparizioni televisive mi hanno dato una bella spinta e una bella botta di autostima. Ho vinto il timore a cantare in italiano di fronte a un pubblico e soprattutto senza la copertura di una band. So che in qualche modo il mio stile arriva alla gente indipendentemente dal genere che canto e dai musicisti con cui suono. Nei due mesi che ho bazzicato in trasmissione non mi è stato insegnato praticamente nulla in modo diretto. Non mi sono stati dati consigli di alcun tipo e non ho ricevuto alcuna dritta musicale o televisiva. Ciò che ero e rappresentavo probabilmente andava bene ed era funzionale al ruolo che mi era stato assegnato in trasmissione. Insomma, ciò che si è visto bene o male sono. La redazione, nella fattispecie gli autori con cui ho lavorato (Luca, Giovani e Piera) mi ha permesso di esprimere le mie idee musicali e non e nei tagli televisivi nulla di ciò che ho detto è stato montato in modo da travisare il messaggio. Il pensiero comune dietro le quinte era suppergiù in linea con il mio. E’ un ambiente molto più rock e alternativo di quanto si possa immaginare..il problema sono i veti che arrivano dalla rai che deve rispettare certe politiche aziendali e direi nazionali stabilendo cosa puù andare in onda e cosa no. Sapevo quasi fin da subito che la Rai non avrebbe mai e poi mai permesso alla redazione di farmi cantare qualcosa dei Maiden, ad esempio. Ho quindi imparato qualcosa sui meccanismi televisivi e sul lavoro dietro le quinte, ma musicalmente in senso stretto…poco a parte il suonare con una band stratosferica con un’ attitudine molto poco italiana. I musicisti erano rilassati e spontanei. Non ho visto le scene di isteria e prosopopea che negli anni ho notato nell’underground musicale italiano semiprofessionale. C’era molta consapevolezza e molta serenità nel suonare. I musicisti non si facevano troppe seghe sugli strumenti e suonavano con molta energia, più energia sugli strumenti di quanta a volta ne veda nei metallari da sala prove. Questo è stato un buon insegnamento. Ho conosciuto e avuto attestati di stima da diverse figure importanti del panorama pop e insomma…l’avessi fatto a vent’anni sarebbe stato meglio ma in fondo già allora il mio obiettivo era pubblicare dischi metal, non cantare sul palco dell’ Ariston.
A questo punto ti salutiamo Ivan e ringraziamo ancora per la disponibilità. A presto !