Si scrive Anata e si può leggere come il nuovo modo di concepire il death svedese. A confermarlo arriva la fantomatica prova del terzo album, impersonata da questo ‘The Conductor’s Departure’ ovvero l’emblema della voglia e delle capacità della band di progredire andando oltre quelle che sono le lezioni impartite dal passato.
E’ così che, con una voglia di ricerca che prescinde da barocchi ed improbabili modernismi, questi quattro ottimi musicisti forniscono l’ennesima prova di indiscutibile forza. A due anni di distanza da quell’insuperabile perla che porta il nome di ‘Under A Stone With No Inscription’, la proposta matura, guarda avanti, acquista sempre più personalità. Death metal profondo ed introspettivo, da metabolizzare con gli ascolti, che scava all’interno dell’animo dell’ascoltatore attraverso strutture erosive ed intricate. Pervase da un’anima sempre più progressiva e comunicativa, le composizioni della formazione svedese si fanno più oblique ed asimmetriche a scapito di una sezione ritmica che perde leggermente intensità rispetto al passato. Il risultato, con l’effetto di una produzione spettacolare, sono melodie poco intense, che ai più oltranzisti potranno far storcere il naso, ma che con il tempo acquistano emotività e profondità da brividi. In un contesto come quello illustrato è immediato pensare a come possano crescere gli spunti tecnici da parte di ottimi musicisti che, volenti o nolenti, fa notare la propria perizia senza veli. Un disco che, ancora una volta, con una personalità eccezionale non si limita a sbeffeggiare l’ira di Dismember o Unleashed e l’acidità degli At The Gates ma rivisita tutto in una chiave originale incardinata sull’atmosfera, sul dolore e sull’imprevedibilità. Da qui nasce un altro disco che, come il suo superiore predecessore, va assorbito e, per la sua attitudine, non può farsi amare da chiunque mastichi death metal; un lavoro che, però, mostra uno spiraglio, uno sguardo sulla voglia di alzare lo sguardo di chi ha, davvero, voglia e mezzi per farlo.