Come potersi distinguere in un mondo come quello del power metal odierno, in cui ci sono decine di gruppi meritevoli ma centinaia di gruppi assolutamente anonimi, derivativi e, perchè no, noiosi?
Questa a grandi linee dev’essere stata la domanda che si sono posti i Beholder all’inizio della loro avventura. Avventura che è cominciata nel tardo 1998 e che ha portato, dopo un paio di demo, alla registrazione del loro primo album “Call For Revenge” uscito nel 2001.
E chi ha sentito il disco in questione sa qual è la risposta che si sono dati e che hanno proposto al pubblico italiano e non. Unire una voce maschile bassa e pulita con una dolce ma al tempo stesso potente voce femminile. Formula ampiamente utilizzata in ambienti più gotici e oscuri, ma altrettanto poco diffusa nel versante più melodico e “classico” del metal.
Anche in questo nuovo platter il connubio si rivela riuscito, dando varietà alle linee vocali e discostandosi quindi dai classicissimi cloni degli Helloween e vari.
Musicalmente il disco si sposta dalle coordinate epiche/fantasy del primo lavoro per attestarsi su lidi più “cibernetici”. Le virgolette sono d’obbligo in quanto sono presenti sia chitarre dal suono classico che batteria tipicamente power con sottofondo quasi incessante di doppia cassa, però sia nei testi che nei suoni aleggia un’atmosfera futuristica. L’esempio più lampante è sicuramente Beyond Science, che parte serratissima e con effetti e filtri vari sulla voce di Patrick, quasi come fosse a gridare un essere in un esoscheletro corazzato. Il ritornello invece è quanto di più melodico si possa trovare, con la splendida voce di Leanan ad entrare in scena sin dal bridge.
Un altro lato interessante che mostrano i Beholder è quello dalla vena più spiccatamente hard rock, come in Bleeding Town, in cui fa il suo ingresso uno splendido suono di organo hammond.
Non possono mancare ovviamente gli inni power-metallici, come la bella e orecchiabile title-track o come Here comes the fire, dal maestoso e incalzante avanzare.
Ad aggiungere ulteriore carne al fuoco ci pensa il breve strumentale Deadlock, che è in pratica un breve pezzo jazz, suonato principalmente da pianoforte e basso. Vorrei complimentarmi con Andy McKein per il suono che ha tirato fuori in questo frangente, dimostrando di essere avvezzo anche ad altre sonorità e non solo al rock più duro e tirato.
A chiudere il cerchio per quanto riguarda il lato cibernetico ci pensano le ultime due tracce: Failure 617 e Ultimate Elimination, condividono infatti un intro molto simile. A dire il vero nella prima, per la parte iniziale, sono state usate le chitarre e nella seconda le tastiere, ma dato il pesante uso di effetti e compressioni varie fatto sulle sei corde, l’impressione è di avere qualcosa di simile “sotto le orecchie”.
La mia preferita fra le due è comunque Failure 617, che si rivela essere anche uno degli highlight del disco. Ma anche Ultimate Elimination mi convince, nuovamente con alcuni passaggi extra-metal a dar varietà al riffing. Effettivamente si sentono le “due scuole di pensiero” dei chitarristi.
Insomma, il gruppo italiano (eggià, a discapito degli pseudonimi utilizzati i Beholder sono assolutamente italiani) dimostra di saperci fare, di essere maturato rispetto al primo album e di volersi staccare da certi, ma non da tutti, canoni power. Malignamente potrei aggiungere che ultimamente molti, troppi gruppi sembrano voler fare la stessa cosa, ma i Beholder con questo “Wish For Destruction” ci riescono sicuramente bene.
Ulteriore chicca è la presenza di una traccia dati contenente il video della title-track, in formato MPEG. Video discretamente riuscito anche se realizzato con i soliti pochi mezzi della scena metal. Ma tanto è solo un piacevole contorno.