I Botch sono morti. Sono finiti in un vicolo cieco, come recita il titolo. Dopo i Breach un altro dei più importanti act dell’harcore post – moderno pone fine alla propria avventura di creazione/distruzione della materia sonora.
I quattro misconosciuti musicisti di Seattle lasciano gemme dal valore incalcolabile lungo il loro percorso: “American Nervoso” è stato uno dei primi album a condurre l’estremo su vie cervellotiche e contaminate, “We Are The Romans” è un capolavoro assoluto, uno di quei dischi che possono contribuire, in senso letterale, all’evoluzione del rock, del metal e dell’hardcore.
“An Anthology Of Dead Ends” è un mini album di pezzi inediti che suona come un epitaffio, con un sottile senso di non detto che aleggia su ogni composizione. Le motivazioni che hanno portato alla disgregazione del gruppo si chiamano incomprensione a livello umano e musicale, non certo a livello di ispirazione. I Botch avevano ancora molto da dire e le 6 tracce di questo EP lo confermano con amarezza.
I territori sui quali il gruppo si è mosso sono difficili da identificare: intricatissimi a livello di ritmiche (spasmi in controtempo a metà tra il free – jazz e i Meshuggah), devastanti a saturare il suono tramite riff che flirtano con i Neurosis e la fusion, il tutto violentato da deliri vocali degni di Carcass e Integrity.
Forse il punto più alto dell’ibridazione tra hardcore e metal estremo; meno monolitici e pretenziosi degli Zao, più drammatici dei compagni di merende Dillinger Escape Plan, i Botch fanno male e lo fanno con mezzi che trasudano acciaio e sangue raggrumato.
Sotto certi punti di vista “An Anthology Of Dead Ends” non è tanto distante dall’imprescindibile “We Are The Romans”: il senso di collasso imminente è sempre presente, la tecnica è spaventosa, i frammenti di psichedelia si sommano all’impatto devastante di ogni strumento.
Il brano iniziale, “Spaim”, atterrisce senza preavviso alcuno, poi si contorce su ritmiche quasi funky fino a cessare in una deflagrazione spaventosa. “Japam” e “Framce” si avviluppano su tempi dispari, velocità folli e mood psicotico. “Vietmam” ha un incedere angosciante, parossistico. Poi la sorpresa: “Afghamistam”, pochi minuti di folk acustico e pastorale che sembrano evocare il fantasma di Syd Barret. In chiusura “Micaragua”, orgiastico maelstrom di noise, doom e feedback all’ennesima potenza. Il silenzio che viene dopo fa ancora più male.
“An Anthology Of Dead Ends” è l’ennesimo urlo di Munch trasfigurato su un disco ottico.
I Botch sono morti, viva i Botch. Uno dei gruppi più coraggiosi, personali ed estremi degli ultimi anni ci inonda di follia e crisi epilettiche per l’ultima volta.
Per i (pochissimi) fan l’acquisto è obbligatorio, per gli altri il consiglio è quello di avvicinarsi, con cautela, ma di avvicinarsi. Questa non è musica per autolesionisti in fase terminale, è il trattato scientifico più credibile sulla follia e la mancanza di luce in fondo al tunnel.
Ci vediamo in un vicolo cieco…
Vincenzo “Third Eye” Vaccarella