Materiale atipico il lavoro interamente strumentale di questo trio, soprattutto perché trovare del Jazz tra le pagine di una webzine che si occupa di metallo pesante è cosa rara. Ma non si era affermato in qualche occasione che il cosiddetto “metallaro” è nient’altro che un “onnivoro” musicale oltre che soggetto altamente sensibile e ricettivo nei confronti di tutte le forme d’arte? Vogliamo se non altro sperarlo ed è per questo che ospitiamo tra le nostre rumorose digitazioni l’ultima prova del chitarrista Cyril Achard, nota plettrata della scena progressiva francese. In questa occasione però non avremo a che fare con chitarre elettriche o assoli al fulmicotone bensì, come preannunciato, con dell’ottimo Jazz moderno dalla buona carica melodica e complessivamente accessibile anche per i meno avvezzi a sonorità di questo tipo. Achard ha buon gioco nel creare e plasmare con un gusto del tutto raffinato le architetture di sostegno a questi cinque brani, attorno ai quali le divagazioni e le improvvisazioni strumentali sembrano dare vita ad ogni ascolto ad immagini ed emozioni estemporanee, quasi impalpabili. In alcune occasioni, come nella nostalgica opener “L’inexistence” e nella riflessiva “Un Songe”, si avvertono decise somiglianze con il bellissimo Beyond The Missouri Sky (1997) del duo acustico Pat Metheny-Charlie Haden, proprio perché le argomentazioni compositive sono anche qui crepuscolari, intime e si arricchiscono qua e là di sonorità latin-folk che donano brio alla diffusa sostanza Jazz. Anche quando si sfiorano concetti fusion (mai eccessivamente cervellotici) si lascia ancora ampio spazio all’improvvisazione, avendo sempre l’impressione che ogni brano sia in costante divenire. Pur nella loro breve durata, questi trentasei minuti di musica si fanno apprezzare paradossalmente proprio per l’assenza di forme e per la fugacità dei riferimenti che solo a tratti ridefiniscono temi e riff portanti, anche se alla lunga l’attenzione cala un poco, forse a causa di un’apparente similarità di “suono” tra i brani stessi. Raffinatezza e rigore qui convivono informalmente a dimostrazione che per apprezzare il Jazz, anche nelle sue varianti più commerciali come questa, è necessario cogliere l’attimo nella sua interezza, piuttosto che “ristrutturare” o “classificare” il tutto in strofe e ritornelli. “Trace” rappresenta certamente una possibilità di evasione dalla consueta rumorosità metallica (a noi tanto cara!) e pur nella sua “anarchia” creativa va a delinearsi come un etereo “binario” sonoro per il pensiero e l’introspezione.