Scrivere la recensione di un album di Ronnie James Dio è un qualcosa di affascinante, perché questo venerando e celebre cantante italo-americano è uno fra i fondatori dell’heavy metal, uno dei punti di partenza e di arrivo di un genere che ha influenzato moltissime band e moltissimi generi musicali diversi fra loro ma che dall’heavy metal hanno preso spunto e principio.
Persino la biografia di questo meraviglioso essere (tanto “nanetto” nella sembianza, quanto “gigante” nel suo talento) attraversa la storia di alcune fra le più importanti band metal.
Sarà proprio l’icona dei Deep Purle a notare le capacità vocali di Dio nel lontano 1975, a lasciare i Porpora e a formare con Dio una fra le band più famose dell’hard rock (considerati padri fondatori dell’heavy metal), i Ritchie Blackmore’s Rainbow. Sarà proprio Dio a sostituire Ozzy Osbourne nei Black Sabbath nel 1979, saranno gli anni di grandi dischi come “Heaven&Hell” e “Mob Rules”. Ed è ancora Dio a mantenere in vita oggi i Black Sabbath, pur senza Ozzy, con la band nata nel 2006, gli Heaven & Hell che trae moniker e formazione dalla line-up dei Black Sabbath al tempo dell’album “Heaven&Hell”, appunto.
Affascinante, direi persino malinconico considerando Dio e tutto ciò che era, in quel periodo, l’heavy metal classico e granitico che oggi sembra essere sorpassato, pur non avendo perso forza l’intensità del suo ricordo.
Sempre in quei magici anni, carichi di grinta e passione, Ronnie James Dio è stato non solo l’elfo che tutti quanti volevano. Dio è stato anche fondatore di un progetto proprio che si chiamava Dio (inteso, fin dall’inizio, non come nome ma come band). Insieme a Vinny Appice lasciò i Black Sabbath per formare la “Dio Band” e a loro si unirono altri due grandi artisti e compositori, Jimmy Bain al basso (ex Elf, ex Rainbow e Wilde Horses) e Vivian Campbell (ex Sweet Savage).
A questo punto della sua carriera, Ronnie James Dio sembra già essere entrato in contatto con diverse tipologie di una stessa musica che ha come filo conduttore la “durezza”. Le prime esperienze musicali risalgono fin ai suoi dieci anni, in America aveva fondato nel 1967 una band blues-hard rock (Electric Elves, poi solo Elf) con la quale si era trasferito in Inghilterra. Qui avviene la svolta. Avviene lo sconvolgente contatto con la scena hard rock ed heavy metal. L’incontro con Blackmore e la nascita dei Rainbow, l’entrata nei Black Sabbath… tutto sembra a posto per raccogliere il vissuto e l’imparato e farne cosa propria e la “Dio Band” era costituita da una formazione sicuramente capace di raggiungere i livelli dei gruppi già allora più grandi nel genere.
Questa ampia introduzione, colma di informazioni che gran parte di voi già conosceranno, vuole soprattutto sottolineare quanto Ronnie James Dio sia stato capace di creare qualcosa di diverso dal già creato e di creare qualcosa che è stato – ed è ancora oggi – ispirazione per altre band.
Cosa ha creato. Al di là del gesto delle corna diventato simbolo per tutto il mondo del metal, la “Dio Band” ha dato vita ad un genere musicale a metà fra i toni cupi ed oscuri dei Black Sabbath di Ozzy e l’hard rock scanzonato e veloce dei Rainbow. Così sembra aver fatto propria quella atmosfera granitica ed aggressiva tipica dei Sabbath “alleggerendola”, pur senza diminuire l’impatto, con un rock più “giocoso”. Giocoso soprattutto nei testi e nelle immagini inventando quelle atmosfere fantasy e mitologiche dove ogni luogo, terrestre o immaginario, è infestato da demoni, mostri e visioni cui moltissime alte band si rifaranno (e basta citare i Maiden).
Penso di poter dire, pur se ogni giudizio da me espresso è quello di una grande fan di Dio, che Ronnie con i suoi Dio sia stato uno dei pochi a non scivolare nella ripetitività del mitologico grazie alla continua ed incessante presenza di una mistica aggressività in sottofondo.
Holy Diver (1983), album di debutto dei Dio, non è solo l’album più venduto e più famoso nella carriera di Ronnie, ma è anche l’album che dimostra una maturazione artistica e questa geniale creazione del fantasy fatta dalla band.
Holy Diver. Epico non solo, filosofico pure fin dalla copertina intorno alla quale si è discusso molto. A un primo sguardo guardare il vinile di Holy Diver significava guardare l’inno al Diavolo fattosi pittura, ma non si tratta semplicemente di questo. Quel grande mostro che frusta con una catena un prete facendolo affogare è simbolo del male e rappresenta il Male della Creazione, il Male creato insieme e inscindibilmente al Bene. Creati per il mondo e per l’uomo. Nulla vuole far pensare a qualcosa di cattolico, l’uomo è un essere creato (e non da un essere onnipotente e onnipresente), una creatura che ha il dono (o la condanna) di avere dentro di sé bene e male, due opposti senza i quali non potrebbe esistere. Meraviglioso! Banale forse come messaggio, oggi giorno, ma terribilmente accattivante in quei primi anni ’80 in cui il rock era la voce della ribellione da ogni adattamento del singolo alla cultura imposta dal gruppo.
Allo stesso modo, le canzoni contenute in Holy Diver vogliono mostrare questa duplice realtà e questa duplice eredità dell’uomo Dio. Tutti conosceranno i grandi classici di questo album, brani suonati ancora durante i live in cui canta Ronnie, brani diventati ormai icona e simbolo di quel heavy metal che, pur scherzando, voleva trasmettere qualcosa.
Tutto in Holy Diver parla di mito, guerrieri e spadoni, draghi e catastrofi, elfi e personaggi sognanti, tutto sembra essere frivolo ma la musica, i riff, l’intensità di una voce fra le migliori del mondo fanno fluttuare l’ascoltatore all’interno di una mistica atmosfera sospesa fra il sognante e il malinconico.
L’album incomincia con “Stand Up And Shout”, brano diventato inno della band, un’energica sferzata potente e veloce che incoraggia a prendere in mano le redini della propria vita, a vivere e a godere la vita che ognuno di noi ha in possesso. La titletrack è una delle canzoni più conosciute nel mondo metal. È un brano capace di calare l’ascoltatore in una visione. Nell’intro il “rumore” del silenzio, il rumore del fischiare del vento… e poi la catapulta che fa precipitare l’uomo dentro sound cavalcante (uno dei riff più coinvolgenti che abbia mai sentito) accompagnando la voce di Dio lungo tutta la durata del brano. Piacevole ricordare anche il video di questa canzone, uno dei video più “trash” che io abbia mai visto, con il folletto Dio alle prese con il suo spadone in mezzo alle rovine di un castello. Altro brano diventato un classico, è la meravigliosa ballata “Don’t Talk To Strangers”. Per me (con “Stll Love In You” degli Scorpions) è una delle migliori ballate metal. Ogni volta che l’ascolto mi viene la pelle d’oca. C’è una perfetta armonia fra il melodico e il duro. Arpeggi mistici che accompagnano la pulitissima voce di Dio e l’entrata perfettamente heavy metal che fra scoppiare l’aggressività in ogni vena. Bellissima.
Naturalmente “Rainbow in The Dark” è un altro pezzo diventato classico, anzi direi “il classico tra i classici” grazie alla sua melodia azzeccata ed orecchiabile, persino un po’ pop, una canzone che sanno cantare tutti.
Holy Diver, comunque, è un album che non si ascolta solo per i suoi classici. Qui c’è il gioco di fantasia insieme alla cupa realtà. Ed è con questo spirito che amo ascoltare da una parte la scanzonata ed aggressiva “Gypsy” insieme alla simpatica “Caught In The Middle” e dall’altra due tipiche canzoni “alla Dio” come “Straight Through The Heart” e “Invisible” per concludere questo capolavoro del metal con “Shame On The Night” ancora una volta una canzone capace di sciogliere la perfetta e disarmante realtà delle parole (vergognati, vergognati) calando un testo diretto e cupo all’interno di una atmosfera mezza fantastica e mezza medievale.
Cosa dire di più, avevo solo due anni, ma Holy Diver era già destinato a diventare uno dei passi più importanti per la mia formazione musicale.