No, non ce n’eravamo dimenticati. “Black Cloud & Silver Linings”, l’ennesima fatica targata Dream Theater, gira nei nostri lettori da parecchie settimane. Sapevamo di dovervene rendere conto, prima o poi. A dirla tutta non avrei mai voluto farne la recensione per tutta una serie di motivi.
Quando infatti i newyorkesi mettono sul mercato un nuovo lavoro, sul web si scatena l’Armageddon: dibattiti, forum, graduatorie, sondaggi, flames di ogni tipo e Dio solo sa cos’altro. La tastiera del PC si fa tutto a un tratto incandescente. Memori dei trascorsi precedenti, abbiamo deciso di lasciar decantare le note e metabolizzarle, a debita distanza temporale dalle prime, fugaci impressioni. Ed eccoci quì, ad inserire quel tassello mancante.
Sì perchè volenti o nolenti, fan o detrattori, i Dream Theater sono uno di quei gruppi con cui ci si deve necessariamente confrontare. E’ come un passaggio obbligato. Comunque la si pensi, la loro è stata una proposta “forte”, un punto di rottura (parliamo del ’92, già diciassette anni son passati…) che ha scoperchiato un vaso di Pandora e ha dato vita ad un numero imprecisato di bands, dalle più valide fino ai cloni non dichiarati.
Incuranti delle ripetute accuse di scarsa originalità, Petrucci & c. sono riusciti nell’impresa di rendere attuale un genere dato per morto e a far parlare continuamente di sé, a dividere, appassionare ed animare le discussioni dei propri fans in giro per il mondo.
Fissiamo dei punti fermi. A partire dal discusso “Octavarium”, il sound dei newyorkesi si è in un certo senso stabilizzato. I tentativi, talvolta bizzarri, di estremizzare in vari modi il sound si sono fatti meno evidenti. Anzi, Portnoy e compagni hanno cercato un poco alla volta di smussare certe trame dispersive apparse fin troppo evidenti su un disco come “Train Of Thought”. Da allora c’è stato un costante (e a parer mio, azzeccato) procedere lentamente verso la forma canzone.
Sappiamo anche quanto sia “onnivora” la band in termini di sonorità: tutto ciò che esce di nuovo sul mercato, Portnoy e compagni lo fanno automaticamente proprio. Furbescamente, insinuano i maligni. E’ successo con i Muse, succede adesso con gli Opeth, non a caso apripista del loro tour 2009. Questa volta non è così. Non ce n’è alcun bisogno. La band ha un processo compositivo ormai consolidato e una creatività potenzialmente illimitata, sforna con costanza un disco ogni due anni e la line up è più compatta che mai. Oltre ad un pubblico che, quando chiamato in causa, risponde sempre presente, detrattori inclusi.
Fatte le dovute premesse, non resta altro che dare voce alla musica.
Non traggano in inganno la durata dell’iniziale “A Nightime To Remember”, né quella dei pezzi successivi di questo “Black Clouds & Silver Linings”; la linea dei Dream Theater è ancora quella di evolversi sempre di più verso la forma canzone, o meglio, di dare una struttura consona anche ai brani di più ampio respiro.
Nell’opener sono evidenti i richiami alle tendenze più estreme (si potrebbe scomodare persino il black in alcuni passaggi), ma è l’unica concessione in tal senso. Il bridge, inconfondibile, è quanto di più dreamtheateriano si possa chiedere.
Così, mentre a “Rite Of Passage” fa la sua bella figura grazie ad un chorus studiatissimo per i live, la successiva “Whither” è una power ballad di pregevole fattura, senza particolari scossoni, ma dal forte impatto emotivo.
La macchia nera di un disco che poteva essere ancora migliore è la successiva “The Shattered Fortress”, l’ennesima puntata, forse l’ultima, del concept sull’alcoolismo ideato da Portnoy a partire dal 2002, e quì dobbiamo aprire una parentesi.
Fatta eccezione per “The Glass Prison”, ho sempre ritenuto questa saga inutile, ridondante e noiosa, caratterizzata da un sound forzatamente cattivo e innaturale per i Dream Theater. Il pezzo in questione non è altro che un collage di tutte le puntate precedenti che già non brillavano di per sé. Aggiungete gli onnipresenti vocalizzi di Portnoy e avrete il risultato, tutt’altro che esaltante. Mi chiedo se con le tonnellate di musica che i nostri hanno a disposizione nei loro archivi, non era proprio possibile inserire qualcosa di meglio. Un’altra occasione persa. Ci auguriamo vivamente che sia il capitolo finale della storia.
La mezzora di musica conclusiva ci restituisce invece i migliori Dream Theater degli ultimi dieci anni. Eccesso di entusiasmo? Forse. Ma sono pure i due pezzi in cui i Dream Theater in un certo senso tornano alle origini, facendo riaffiorare quell’anima genuinamente progressive rock, senza improprie contaminazioni.
Se “The Best Of Times” odora di Rush lontano un miglio regalandoci comunque uno dei migliori assoli di sempre di Petrucci, la conclusiva “The Count Of Tuscany” rasenta la perfezione: per il suo pathos iniziale, per il testo avvincente, l’intermezzo onirico e il chorus. Il finale del pezzo poi è tutto da ascoltare, un vero trionfo di feeling ed epicità.
Concludendo: se siete fan dei Dream Theater probabilmente sorriderete nel leggere questa recensione così in ritardo rispetto ai tempi del “die hard fan”; avrete già comprato il CD al momento della sua uscita e vi sarete fatti la vostra idea. Se non siete mai stati fan dei Dream Theater o non lo siete da tempo, sfiduciati dagli ultimi lavori, bè, lasciatevi rassicurare: questa volta hanno fatto quasi centro. Lo dice anche il titolo: nuvole nere e luci di speranza. Più chiaro di così…