Amanti di “Awake” e di “Images & Words”, adulatori dei suoni duri di “Train Of Thought” e delle sperimentazioni di “Six Degrees”, fan dei Dream Theater di ogni razza ed età, mi rivolgo a ciascuno voi: siate sinceri, passata la sbornia mediatica generata dal contest per le selezioni del nuovo batterista, quanti di voi si sarebbero aspettati un miracolo da questo “A Dramatic Turn Of The Events”? Pochi, scommetto e non c’è voluto molto a dipanare tutte le aspettative che avevano caricato di responsabilità il nuovo arrivato Mike Mangini. Il povero Mike alla fine è meno decisivo di quanto fosse lecito aspettarsi e non certo per demeriti propri. Intendiamoci, il successore di Portnoy svolge un lavoro sopraffino, da autentico professionista, grazie ad uno stile forse meno appariscente del suo predecessore ma non per questo inferiore a livello qualitativo. Purtroppo bisogna ammettere che i limiti della band sono gli stessi da un po’ di anni a questa parte (fatta eccezione per il precedente “Black Clouds & Silver Linings”, che mi era piaciuto parecchio): un cantante che non riesce ad esprimersi sui livelli di un tempo, un tastierista troppo freddo e programmato e, fondamentalmente, una manifesta carenza di idee. I Dream Theater di oggi suonano come i Dream Theater degli ultimi dieci anni, ostinatamente aggrappati ad un suono statico, totalmente impermeabili rispetto a qualsiasi spinta evoluzionistica, incapaci di osare e accettare nuove sfide. Parlando di un gruppo progressive, dunque teoricamente orientato alla sperimentazione, tutto questo potrebbe non essere un problema, ma quando la stoccata vincente manca da così tanto tempo è difficile non nutrire dubbi. I Dream Theater restano ancorati alla formula “accontentiamo tutti per non accontentare nessuno”: c’è il prog comunemente detto, per quanto risulti arduo ormai dare una definizione univoca al genere, con le solite partiture infiocchettate ai limiti dell’emicrania (“Outcry”), c’è il lato oscuro enfatizzato da chitarre ritmiche serratissime, ci sono le candide ballad a fare da intermezzo (“Beneath The Surface”) e l’onnipresente pezzo di ispirazione pop ad inseguire le masse ma sempre senza far troppo rumore (“Build Me Up, Break Me Down”). E’ solo nella seconda parte del disco che la band riesce a partorire qualcosa all’altezza del proprio passato, a partire da quella “Bridges In The Sky” che recupera le sonorità più epiche del combo newyorkese per proseguire con la meravigliosa “Breaking All Illusions”, degna erede di pezzi come “Metropolis” e “Lines In The Sand”. I Dream Theater proseguono nell’operazione di rispolvero del linguaggio di Images & Words riuscendo solo in parte nell’intento. A scanso di equivoci: non sto dicendo che questo sia un brutto disco, tuttaltro, è un disco suonato e prodotto in maniera eccellente e sicuramente superiore alla media di quanto offre il mercato, ma questo si sapeva già. Sto solo dicendo che è un disco inutile alla pari di quasi tutti gli album dei Dream Theater post 2002, che nulla toglie e nulla aggiunge ad una band che per quanto mi riguarda, si è autocondannata anzitempo all’inutilità per una palese mancanza di coraggio. Detto questo, sentitevi liberi di amare alla follia questo disco, per quanto mi riguarda il Teatro del Sogno ha chiuso i battenti da tempo.