“In the Arms of a Stranger”, originariamente uscito nel 1991, segnò il ritorno sulle scene dell’avvenente “regina” del rock svedese Erika dopo il debutto dell’anno precedente intitolato “Cold Winter Night”.
Da lungo tempo fuori stampa e divenuto materia per collezionisti, viene oggi ristampato dalla ottima MTM Music per la gioia degli appassionati che devono anche tenere d’occhio il portafoglio.
Le carte sulle quali intende puntare il disco risultano evidenti sin dal primo ascolto: refrain facili facili, suono leggero, limato e smussato sino all’eccesso (e forse leggermente datato anche per gli standard del ’91), struttura dei pezzi classicissima e naturalmente vocals in primo piano.

Devo ammettere che, dopo uno scetticismo iniziale, in questi giorni, sotto la doccia, al supermarket o mentre pensavo a tutt’altro, mi sono ritrovato a volte a canticchiare i ritornelli di “Rock Me Into Heaven” o “Made of Stone”, e la cosa mi ha portato ad alcune conclusioni.
Sostanzialmente si può dire che il disco convinca a metà sotto molti aspetti.
Le melodie sono in alcuni casi accattivanti e riescono a fare breccia (le due canzoni sopracitate, o ancora “Games We Play” e “Fall From Grace”), ma in altre occasioni risultano esageratamente prevedibili o inoffensive (per esempio “Easy Come, Easy Go” o “Walk Into My Heart”): la stessa “hit” “Wake Me Up When the House is on Fire” presenta un ritornello così irritante da apparire quasi una seconda scelta della premiata ditta Ponti-Pepe, capace di ben altro songwriting.
Un punto molto dolente è poi quello dei testi, di una banalità quasi parodistica: nulla contro i testi disimpegnati e “facili”, specie nel rock’n’roll, ma qui la dose di cliché, frasi iper-trite e lessico da scuole medie è veramente sconcertante.
La cosa che più penalizza questo disco comunque (se si esclude il tastierista, notevole nello scegliere i suoni e gli effetti) è la prestazione assolutamente anonima dei musicisti, che si eclissano del tutto e si limitano a fornire una base per la voce di Erika, lasciandole completamente la scena. Purtroppo, la fascinosa bionda non possiede propriamente una “grande voce”, risultando anzi un po’ miagolante e priva di profondità e facendo così inevitabilmente sentire la mancanza di un adeguato supporto strumentale da parte del gruppo, che neppure l’apparizione su “Shadows in Rain” dell’allora marito Yngwie Malmsteen riesce a colmare.

Eppure, nel complesso, questo “In the Arms of a Stranger” non è un brutto disco: anzi, si fa ascoltare tranquillamente a più riprese senza stancare, e pur nella sua ruffianeria sfacciata riesce comunque ad offrire talvolta qualche passaggio interessante.
Il paragone, inevitabile in certi casi (“Games We Play” non vi porta alla mente la comunque molto più heavy Lita Ford?), con le altre illustri “regine” del rock melodico è forse ingeneroso e probabilmente inutile: meglio prendere questo disco per quello che è, un piacevole album di AOR patinato e leggerissimo, che non era nè diventerà un capolavoro ma che grazie a questa ristampa potrà essere facilmente reperito e sicuramente apprezzato da una buona fetta di appassionati.

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