Live report a cura di ROSSELLA BUEMI
Non definiteli progressive. Non definiteli avanguardisti. E, per cortesia, non accostateli a nessuno. Perché i GodspeedYou! Black Emperor potrebbero anche digerire il vuoto (e dargli nuova forma), ma non un’etichetta.
Dopo tre anni da ‘Allelujah! Don’t Bend! Ascend!’ la band canadese torna alla ribalta con un nuovo album e una data al Live di Trezzo sull’Adda, che in molti hanno definito vicina ad un’esperienza onirica.
Promotori di un antidivismo che li ha sempre caratterizzati (riluttanti a concedere interviste, rifuggono i fotografi come se volessero rubargli l’anima in uno scatto, c’è chi ha anche gridato allo scandalo nel vedere – per la prima volta – un banchetto del merchandise), è probabile che anche questo atteggiamento abbia creato intorno a loro un’aura di mistero, per quanto sia certo che la ragione principale del loro successo sia legata alle sonorità che sono in grado di creare.
Una cosa che ci ha rincuorati subito (e che ha immediatamente scacciato ogni scetticismo iniziale), è stato notare l’enorme coda alla cassa, nonostante la difficoltà materiale per raggiungere la location, nonché l’orario (23:00); probabile sintomo che le atmosfere cupe e a tratti apocalittiche abbiano affascinato e non poco anche il nostro bel paese. Un pubblico composto, attento ma al contempo entusiasta, nonché il buon suono che si può apprezzare al Live, hanno fatto tutto il resto. Anzi no, il resto lo hanno fatto loro.
Ad aprire la serata è Carla Bozulich, musicista statunitense dalla vocalità a tratti esasperata che, nonostante l’accoglienza tiepida, lentamente riesce ad irretire una buona fetta di pubblico.
Ma poi, all’improvviso, cala il buio, qualcosa inizia a sibilare, e si fa strada in modo sempre più insistente, fino a sfociare in Hope Drone. Da lì è un unico filo conduttore, con pochissime pause e applausi contenuti, quasi a non voler distruggere la dimensione parallela creatasi. L’eccezione la fa Peasatry or ‘Light! Inside of Light!’, eseguita in maniera tanto perfetta da risultare quasi fastidiosa. I riff pesanti e stridenti infiammano il pubblico e lo abbracciano in una nevrosi collettiva che si conclude in un finale a tratti ascetico. Ma poi, come ad inchiodare sul freno, inizia ‘Lamb’s Breath’ , e ci si trova nuovamente risucchiati in un vortice di distorsione. Il passaggio ad ‘Asunder, Sweet’ é forte ma, al contempo, impalpabile, e proietta in una dimensione pari a quella che si può facilmente provare guardando ‘Beyond The Black Rainbow’, (se non lo avete fatto, cercate di rimediare quanto prima!). E nel momento in cui sembra sia l’angoscia ad aver preso potere, scompongono nuovamente ogni schema con Piss Crowns Are Trembled, che ha il sapore di un brusco risveglio, ma che si allontana con una sensazione più vicina alla speranza che all’abbandono.
Come ci si sente dopo un concerto del genere? I più si guardavano intorno, quasi spaesati, cercando di capire se quello a cui avevano assistito fosse stato sogno o realtà. Dopo il buio costante, talvolta intramezzato da scorci confusi, foto color seppia, e frasi scarabocchiate sullo sfondo, le luci accese alla fine hanno come spalancato gli occhi non dal buio della sala, quanto dal torpore della coscienza, regalando una consapevolezza completamente nuova: quella che ciò che rimane, è sotto gli occhi di tutti, ma spesso si tende ad ignorarlo. E per risvegliare le coscienze, o quanto meno per metterle più a fuoco, talvolta non servono parole, ma suoni che accompagnano sino al calar della notte.