Mi sono avvicinato con una buona dose di curiosità a questo nuovo album dei Godsplague. Non li conoscevo assolutamente, ma dopo aver letto una loro scheda sul web mi ha catturato quello che doveva essere il genere proposto dalla band. Cioè uno stoner groove che non disdegna molte incursioni in frange più estreme. Il gruppo finlandese, premettiamo, sa il fatto suo. Un disco ben suonato questo “H8”, compatto, bello da ascoltare e interessante. Un prodotto moderno, che mette in evidenza la passione dei musicisti per molti generi diversi, tanto che in determinate occasioni le influenze spiccano prepotentemente e caratterizzano le songs i maniera a volte positiva, ma a volte non così convincente. Il problema principale sta nella presenza di alcuni brani che, proprio a causa delle bands alle quali si rifanno, risultano meno convincenti e personali di molte altre. Eliminando queste, si arriverebbe sicuramente ad un risultato più ottimale.
Le prime due canzoni, “Zero Mission” e “Useless” sono molto belle, possono anche ricordare gli Slipknot per quanto riguarda l’andamento, ma la cosa che le fa spiccare è sicuramente quel groove assassino che colpisce davvero nel segno. Poi però “Into Oblivion” stupisce più in negativo, a causa di una differenza marcata con le precedenti. In questo caso è lo pseudo metalcore che viene fuori, con classiche strofe aggressive e refrains pregni di melodie ma privi di mordente. Con “I Will Break You” ci si avvicina ai lidi dei Soiwork, anche per la voce del ritornello, ma nel complesso la track non è malaccio. “The Depht” si snoda su sonorità quasi tendenti al new metal, miste ad influenze più particolari, simili a quanto fatto ad esempio dagli Hell Yeah di Vinnie Paul. Dopo una pausa con la tranquilla strumentale “Hope”, arriva la bomba con “All You Are/J.P.D.L.”, un’assalto di modern thrash bellissimo, una track fra le migliori dell’intero lavoro. Ma non c’è pausa, perchè ecco che “Timebomb” si presenta con il suo incalzare southern groove, davvero coinvolgente. Una song davvero stupenda, forse la più completa del lotto. “Don’t Come Back” è un miscuglio di molte sonorità, dall’hardcore al groove thrash, con qualche spruzzatina di death svedese che da un sapore più particolare al brano. Ma ecco un’altra caduta di tono con “Under The Fire”, in tutto e per tutto la sorella della precedente “Into Oblivion”. Stessa struttura, stesso andamento simil melodico che non porta assolutamente da nessuna parte. La conclusione è affidata alla title-track, dove anche qui esce a spallate e prepotentemente l’ombra degli Slipknot, anche in questo caso però molto meno aggressivi e più “pacati”.
Che dire, un disco abbastanza buono, anche se ci sono dei momenti di standby, rappresentati dalle canzoni più melodico/commerciali, che mi fanno abbassare di un punto il voto e mi obbligano a consigliare il disco solo agli appassionati e ai più curiosi. Ci sono sicuramente degli ottimi spunti, nel complesso la prova è più che sufficiente, ma non basta per brillare così tanto nel firmamento del metal.