Aspettavo con ansia il ritorno dei quattro “scavafosse” tedeschi e puntuali come al solito i Grave Digger sono tornati a far parlare di sè con un nuovo album dal titolo “The last supper”. Come molti di voi ormai sapranno la maggior parte degli album dei Digger sono legati ad un concept: siamo passati attraverso le guerre tra Scozia ed Inghilterra, ci siamo seduti alla Tavola Rotonda tra i cavalieri di Re Artù passando attraverso le epiche gesta dei Templari fino ad arrivare ai racconti di Edgar Allan Poe e al “rheingold” di Wagner; questa volta però, con il loro dodicesimo album in studio, Chris e soci non compongono l’ennesimo concept bensì un album più “vario” che, soprattutto dal punto di vista delle liriche, va a toccare argomenti che si riflettono nella cultura cristiana.
Dopo il deludente (a mio avviso) “Rheingold” i quattro becchini fanno il colpaccio con questo nuovo platter scrivendo l’album che da molto tempo aspettavo: mid tempo rocciosissimi, coroni epici ed orecchiabili come solo i Digger sanno fare, doppia cassa a manetta e il suono della chitarra di Manni Schmidt (ex Rage) tagliente ed aggressivo come non mai; Chris, come al solito in forma splendida, regala, con la sua voce al vetriolo, una prestazione incredibile mentre basso e batteria creano un groove come solo pochi artisti sanno fare.
Musicalmente parlando non c’è molto da dire: chi segue da anni la band tedesca sa che gli “scavafosse” non si scostano di una sola virgola dal sound che li ha resi famosi e brani come “Black Widows” e “Hundred Days” ci fanno capire che i becchini sono tornati per spaccare le orecchie di tutti; Manni si svela ancora una volta un ottimo esecutore e compositore riuscendo a variare sensibilmente il tempo delle proprie ritmiche e alternando in maniera splendida parti acustiche a parti distorte creando soli di chitarra al tempo stesso malinconici e dannatamente esaltanti; ritmiche heavy classiche e power si fondono nelle successive canzoni: “Desert Rose”, caratterizzata da un riffing pesante come una mazzata in testa e “Grave in the no man’s land”, dalla ritmica veloce e diretta che ci riporta indietro al metal classico degli anni ottanta, si rivelano due grandi brani che faranno sfacelo in sede live.
All’interno di “The last supper” abbiamo tutta una serie di canzoni incredibilmente belle come la title track, un mid tempo ben congeniato e impreziosito da un break melodico centrale piuttosto notevole; e ancora “Hell to pay”, forse il brano più indiavolato di questa nuova fatica dei tedeschi che vede la doppia cassa regina indiscussa, mentre la chitarra si avventura in riffs al limite del thrash più tirato e devastante; si riparte poi con l’anthemica “Soul Savior” fino ad arrivare a “Crucified”, una semi-ballad molto triste (soprattutto nella parte iniziale dove Chris è accompagnato solo da un chitarra) che vede, dalla strofa cadenzata e malinconica, al ritornello (che si rivela il suo punto di forza) un’incredibile evoluzione sonora ricca di pathos e di tristezza. Insomma una canzone che coglie un lato compositivo dei Grave Digger che fino ad ora il gruppo non aveva ancora mostrato del tutto. Unica nota di demerito va alla conclusiva “Always and eternally”, lentone che cerca di emulare i fasti della splendida “The ballad of Mary” ma che purtroppo risulta essere davvero noiosa complice una struttura musicale del brano stesso troppo scontata e un Bolthendal in crisi dal punto di vista interpretativo.
In definitiva questo è l’album dei Grave Digger che aspettavo da molti anni: il modo di suonare dei tedeschi è sempre lo stesso , veloce e diretto con chorus entusiasmanti e sempre azzeccati. I Digger portano avanti quello che meglio sanno fare e anche se in “The last supper” non sono presenti brani del calibro di “Heavy metal breakdown” o “The reaper” questo nuovo album è davvero interessante e le canzoni che lo compongono non perdono un attimo di grinta.