La rinascita. Una sorta di resurrezione dalle ceneri, nessuno probabilmente si aspettava che gli Hatesphere potessero tornare fieri e potenti sulle scene dopo gli abbandoni di quasi tutti i musicisti coinvolti che hanno letteralmente falcidiato la line up. Era rimasto solo il chitarrista principale e maggior compositore della band, il simpaticissimo Peter “Pepe” Lyse Hansen, che finchè aveva con se un cantante come Jacob Bredahl poteva anche starsene tranquillo e ripartire daccapo, ma probabilmente quando anche quest’ultimo se n’è andato, di certo il compito di trovare un valido rimpiazzo non dev’essere stato facile. Del resto stiamo parlando di un singer a mio parere favoloso, uno dei migliori che si possono trovare in giro per il genere proposto, che ha fatto del suo particolarissimo timbro vocale il suo punto di forza (a conferma di ciò anche il lavoro a dir poco superlativo fatto nei primi due dischi dei grandissimi e nostrani Allhelluja). Personaggio, Jacob, con un carisma innato ed una capacità di tenere il palco maestosamente, ve lo dice uno che gli Hatesphere li ha visti per ben tre volte. E’ stata quindi una sorpresa alquanto negativa la scoperta del suo abbandono, sia nella band madre che negli Allhelluja, per concentrarsi solamente sui suoi altri progetti hardcore, i Last Mile e i Barcode, e sul lavoro di produttore discografico. Uno come Pepe però di certo non si scoraggia e, contrariamente alle voci che davano la sua band per spacciata, ritorna nel giro prepotentemente con una compattissima combriccola di giovani ragazzotti danesi che vivono di metal e della voglia di mettersi in mostra. E non si ripresentano in sordina, lo fanno con un disco che sprizza positività da tutti i pori e va addirittura a migliorare quanto di buono fatto col precedente e molto positivo “Serpent Smiles And Killer Eyes”.
Vista così, direte, non poteva andare meglio. Invece, ecco che però spunta fuori un aspetto che penalizza i cinque in modo indelebile e difficilmente sopperibile nel futuro. Mi riferisco, come non poteva essere altrimenti, alla voce del singer. Pur essendo ancora ultra giovane, visti i suoi “candidi” 19 anni di età, Jonathan “Joller” Albrechtsen possiede una voce superlativa, potente e cristallina, che si sposa abbastanza bene con la musica aggressiva e violenta che ci propone il combo danese. Qui infatti va fatto un plauso al baby frontman, che dimostra di avere veramente della classe da vendere ed una personalità destinata a farlo diventare ancora più affermato in futuro. Quello che invece lo penalizza, è un qualcosa che purtroppo, o per fortuna, non dipende da lui. Cioè il timbro della sua voce. Diciamoci la verità, qual era l’elemento che faceva subito capire che si stavano ascoltando gli Hatesphere? La voce di Bredahl, ovviamente, grazie a qualle sua particolare intonazione che, come già detto poche righe fa, lo faceva emergere da una normalità che regna perenne sulla scena della musica estrema. Il nuovo cantante quindi, se da un lato si dimostra altamente azzeccato per il ruolo che deve ricoprire, dall’altra si deve mettere il cuore in pace e trovare un altro modo per donare quel pizzico di “novità” in più ad una proposta musicale che altrimenti è difficile non porti a quella sensazione di “già sentito”.
La cosa che dispiace, è il rimpianto di non poter avere il piacere di ascoltare un album così ben fatto con la solita voce, credetemi, così avrebbe raggiunto delle vette di eccellenza ancora maggiori di quelle che già raggiunge, vista la varietà e la nuova verve che hanno acquisito le songs, con la chitarra di Pepe forse mai così ispirata e con così tanta voglia di distruggere tutto quello che gli capita a tiro, grazie a quei riff stupendi e a quelle melodie quasi “mascherate” che ti si stampano in testa fin dal primo ascolto. “To The Nines” è un full-length che sa il fatto suo, che colpisce come una mazza chiodata, che possiede moltissime frecce velenose da scagliare una dopo l’altra. La prova della sua bontà ce la espone sin dal principio, con una tripletta senza compromessi, formata dalla title-track, da “Backstabber”, una delle migliori in assoluto, e “Cloacked In Shit”. Una scarica di thrash/death sparata a mille come un mitragliatore sulle orecchie di un ascoltatore che sicuramente non si aspettava tanta nuova linfa dagli Hatesphere. La compattezza e la produzione sono altri due elementi che aumentano ancora di più i punti a favore di un’opera che conosce veramente pochissimi punti deboli. Si potrebbe rimproverare al gruppo di essere forse un po’ troppo statico nelle diverse partiture, senza approcciare qualche differenza stilistica, ma questa sorta di ritorno alle origini fa solo che bene, potete fidarvi!
Insomma, il disco che non ti aspetti. La felicità, da grande estimatore dei danesi quale sono, di poterli finalmente rivedere attivi e al massimo della forma, con un disco davvero consigliatissimo che va a piazzarsi sicuramente al top delle uscite estreme dell’anno in corso. Non voglio togliere nulla alla grande sorpresa Joller, ma se ci avesse cantato Jacob, chissà… Avremmo avuto il disco estremo dell’anno…? Purtroppo non lo sapremo mai, ma forse è meglio così…