Big Money. Soldoni. Già. In soldoni, quest’album degli House of Lords è semplicemente magnifico. Un AOR maturo, deciso, strutturato, che non mostra il fianco a nessun tipo di lancia. Ognuno al proprio posto, pronti, partenza, via!
Una suadente voce di libidinosa signorina apre la traccia n.1 annunciando “the root of all evil”. E James Christian segue acclamando “moneeeeey”! L’usuale ricercatezza e magnificenza è stata messa da parte, in luogo di un impatto più efficace e melodico, dettato da un energico riff di chitarra che ci accompagnerà per tutto il pezzo, una cavalcata durante la quale è impossibile non avere un accenno di headbanging. Per nessuno.Ah dimenticavo, si tratta della titletrack, Big Money.
Una chitarra acustica, il batterista che accarezza i piatti, voce, cori, per One Man Down, un pezzo che poi dal trespolo si trasferisce direttamente sul bancone del bar, spazza via tutto quanto vi è sopra riposto, e impone un ascolto dovizioso. Qui niente principio di headbanging. Sarà la gambetta a partirvi.
First to cry. Un pezzo in cui la ricerca melodica e la ruffianeria sono stati sicuramente posti ai primi posti della scaletta delle priorità. La calda voce di James Christian è una garanzia sulla quale non dubitare mai. E l’ultimo giro mezzo torno sopra fa venire voglia di scavare nell’armadio per riesumare tutto ciò che possa essere inequivocabilmente, solamente e spacchiusamente anni ’90.
Ed eccoci alla track numba foooour. Quella per la quale è stato girato un videoclip, in circolazione dal 2011, Someday When. Echi di un suono alla Europe introducono il pezzo, e lo tengono, discreti, a braccetto. Ritmi ed interpretazione pieni di pathos, ottima prova di tutti i musicisti, ed eccelso l’assolo di chitarra di Jimi Bell.
Searchin’ smorza i toni, e Jimi Bell riconquista lo spazio gentilmente concesso alle tastiere nella precedente traccia, che sottolineo, vengono suonate dal cantante. Ascoltatela da in piedi, e poi fatemi sapere se, qualsiasi cosa stiate facendo, non vi parte una pelvica urticante.
E vi pare che non si reingrani la quarta da subito? Living in a Dream World, pezzo caratterizzato da una ritmica simil indiana, e da cori magnifici ad opera di tutta la band.
Un dolcissimo piano, suonato da Jeff Batter, introduce The Next Time I See You Again, la ballad, accompagnata da un delicatissimo vst che riproduce il suono di un violino. La ballad ci sta. Anche se sono troppo gasata dai pezzi precedenti per digerirla bene.
Suoni alla Blade Runner aprono Run, sorella di Someday When, ma un filino più cattivella, con cori direi quasi Leppardiani, e conclusione con una bella rullata di pelli.
Hologram. L’AOR non è un’ologramma: è proprio qui, e se allunghi la mano, lo puoi persino toccare, in tutte le sue micro sfaccettature, variegature e fattezze!
Stessa cosa dicasi per Seven, ma in questo caso per la vena hard rock. Traccia estremamente energica, trascinante e ricercata! Così come la seguente Once Twice. Una doppietta di tutto rispetto assestata così, sul finire del disco. Rocambolesco l’assolo di Jimi Bell, che lungo tutto l’album ha dato una più che ampia prova della sua abilità compositivo / esecutiva.
Ed eccoci alla battuta finale. Blood. E che succede? Che sono ‘sti armonici alla Zakk Wylde? E ‘sto retrogusto alla Enter Sandman? Alla faccia del pezzo di chiusura! Headbanging, gambetta che parte, braccette che si dimenano! Quando l’ultimo colpo di piatti avrà finito di riecheggiare dalle casse del vostro impianto vi ritroverete, danzanti e delusi, a rimetterla daccapo.
Ottimo lavoro. Da non perdere.