Il 16 maggio del 1983 vede il ritorno in grande stile degli Iron Maiden con quello che forse è considerato il loro album più sottovalutato, anche se ormai è diventato uno dei grandi classici della storia della musica metal: “Piece of mind”. Questo nuovo disco segna inoltre una gran novità all’interno della Vergine di Ferro: Clive Burr è cacciato dalla band subito dopo il “Beast on the road tour” per problemi di droga ed è sostituito da Nicko McBrain che grazie ad una maggiore versatilità nell’uso della batteria rispetto a Burr, specializzato in partiture veloci al limite dello speed, porta nuova linfa vitale ai pezzi senza snaturare il sound che li aveva resi famosi.
Musicalmente parlando ci troviamo davanti ad un album d’altissimo livello, anche se i suoni generali del disco si rivelano meno incisivi rispetto al precedente “The number of the beast”: il basso di Harris è messo in evidenza senza troppi problemi riuscendo a regalare ottime melodie che s’incastrano magnificamente con le parti di chitarra di Murray e Smith, a loro volta autori di riff e soli che dire geniali è poco. Tutto l’album è permeato da una sorta d’aura carica di dinamicità ed aggressività che esplode grazie all’eccelsa prova del singer Dickinson. Ed è proprio durante lo scorrere di queste nove canzoni che possiamo trovare alcune delle maggiori hits della band: un rapidissimo intro di batteria, con il quale Nicko si guadagna il posto all’interno della band, c’introduce all’interno di “Where eagles dare” brano piuttosto lungo dove la struttura principale della canzone è incentrata sempre sullo stesso riff; si prosegue con la cadenzata “Revelations” pezzo che riesce ad alternare in maniera egregia parti cadenzate e melodiche con altre più veloci e di maggiore presa. Ma è con le seguenti “Flight of Icarus” (singolo apripista di “Piece of mind”) e “The trooper”, brano in cui è descritta la guerra di Crimea, tra inglesi e russi (1853-1856), dove con il riff iniziale i Maiden vogliono ricreare le galoppate dei cavalli della “cavalleria leggera”, che la band inizia a scrivere la storia della musica: la prima canzone è un cadenzato mid tempo in cui sembra che tutti gli strumenti si uniscano come un’unica voce per creare una sorta di palcoscenico a Bruce Dickinson autore di una prova vocale strepitosa, mentre il secondo diventerà uno dei brani più famosi della band, conosciuto praticamente da chiunque. Si prosegue ancora con “Still life” che vede contrapporsi l’iniziale parte melodica, in cui Bruce e Dave fanno la parte del leone, a una seconda parte caratterizzata da una struttura musicale veloce e di chiara matrice maideniana. Interessante è la storia che si nasconde dietro questo brano: infatti, le frasi al contrario che si possono sentire all’inizio sono nient’altro che alcune parole biascicate di Nicko in stato di totale ubriachezza, mentre le liriche del pezzo parlano di un uomo attratto come un magnete da uno specchio d’acqua tanto che alla fine vi salta dentro portando con sé la sua sfortunata ragazza. Il finale dell’album è un susseguirsi continuo di emozioni e i Maiden ci propongono “Quest for life”, a mio avviso uno dei pezzi meno riusciti dei cinque inglesi, anche se la linea melodica della strofa è davvero esaltante; via ancora con “Sun and steel”, brano veloce e dannatamente esaltante, dalle ritmiche aggressive e dal ritornello accattivante, mentre chiude l’album la lunga ed epica “To tame a land” che s’ispira alla novella “Dune” di Frank Herbert (1920-1986) e che vede un continuo susseguirsi di riff oscuri e minacciosi in cui il basso di Harris diventa protagonista assoluto.
Ancora una volta gli Iron Maiden hanno creato un album grandioso, fatto di ottimi riff melodici, cavalcate esaltanti di basso, soli al fulmicotone come ormai lo stile di Murray e Smith ci ha da tempo abituati e incredibili linee vocali. “Piece of mind” non deve mancare nella discografia di nessun metallaro, questa è musica, questa è la storia.
UP THE IRONS!