Continua il successo mondiale degli Iron Maiden, che dopo aver suonato in giro per il mondo per quasi un anno tornano in studio per registrare un nuovo capolavoro. Questa volta il complesso britannico chiama a sé nuove influenze mai sperimentate prima d’ora andando a modificare leggermente quelle sonorità che fino al precedente “Powerslave” avevano funzionato alla grande. Corredato da un artwork futuristico, come sempre opera di Derek Riggs e impreziosito da scatti fotografici in stile paesaggio lunare con tanto di mezzi utilizzati nello storico film Blade Runner, arriva nell’ottobre 1986 “Somewhere In Time” ed è subito successo.
Più elaborato dei precedenti album, sia da un punto di vista strumentale sia lirico, “Somewhere In Time” vede gli inglesi utilizzare per la prima volta all’interno dei loro pezzi, i sintetizzatori, capaci di articolare le melodie e la struttura stessa delle canzoni. I brani hanno un incedere avveniristico e visionario mentre le melodie stesse delle canzoni di rivelano molto lontane da quanto prima suonato dagli Iron Maiden.
A ricordare quest’album ancora oggi gli Irons suonano dal vivo le ottime “Wasted Years”, ispirata dalle fatiche e dai sacrifici che la band aveva dovuto superare per portare a termine il mastodontico “World Slavery Tour”, e l’elaborata “Heaven Can Wait”, il cui coro da stadio, dal vivo, è cantato ogni volta, oltre che dalla band, da decine di fan impazziti che raggiungono i nostri sul palco.
Tra le altre cose “Somewhere In Time” è un album che presenta brani immensi ed emozionanti, come l’opener “Caught Somewhere In Time”, melodica e potente, esplode proprio grazie al massiccio uso di tastiere e all’incredibile sovrapporsi dei riff delle chitarre di Murray e Smith; da brivido sono le successive “The Loneliness Of The Long Distance Runner” e “Stranger In A Strange Land”, la prima rappresenta il brano più heavy e diretto del disco, mentre la seconda è un pezzo che vede ancora una volta il classico intro di basso di Harris per poi esplodere in un riff incalzante ed immediato che lascia spazio, nella parte centrale della canzone, alla mano di Mr. Smith, impegnato in uno dei soli più belli che mi sia mai capitato di sentire. Ad eccezione di “Sea Of Madness”, il brano meno riuscito e forse più atipico di tutto questo nuovo platter, il disco prosegue ancora con canzoni di alto livello ed arrivano “Deja Vu”, unico estratto che porta la firma di Dave Murray e la finale “Alexander The Great”, che ci regala i Maiden impegnati nell’ennesima canzone epica, prima lenta, poi veloce e potente e poi melodica, con un’ottima prova di Dickinson alla voce e superbi solos di Murray e Smith nella sua parte centrale.
“Somewhere In Time” andò a siglare l’ennesimo successo per la band che in men che non si dica si ritrovò nuovamente a suonare in giro per il mondo e il “Somewhere On Tour” terminò soltanto un anno dopo circa, dopo un totale di 148 concerti, alcuni tenuti anche in Italia con il supporto dei W.A.S.P.
UP THE IRONS!