Decimo disco per i Kingdom Come di Lenny Wolf, anche se forse in questo caso sarebbe meglio dire secondo della sua carriera solista, dal momento che l’artista tedesco in questo nuovo lavoro, come già nel precedente “Indipendent”, non si è limitato a comporre tutti i brani e produrre il disco ma si è anche impegnato a suonare tutti gli strumenti lasciando al collega Eric Foerster solo il compito di eseguire gli assoli di chitarra.

Come già riscontrato con l’appena citato “Indipendent”, siamo difronte ad una nuova tappa della carriera di questo musicista, che sebbene mantenga ancora ben salde le sue radici nel sound classico di mostri sacri del calibro di Led Zeppelin, AC/DC, Beatles e simili non disdegna ora di affacciarsi e sperimentare in altre direzioni, lasciandosi influenzare da sonorità più al passo coi tempi e da lui stesso indicate provenienti dall’ascolto di Massive Attack, Radiohead, Depeche Mode e Soundgarden.
Se questa scelta da un lato ha, come si può ben immaginare, spiazzato e indisposto i vecchi fan, che ad ogni pubblicazione si aspettano sempre di ascoltare una nuova “Get It On”, dall’altro ha certamente rivitalizzato il suo songwriting, con risultati a dire il vero altalenanti ma pur sempre apprezzabili.
Il problema principale di “Perpetual” però, ancor più che di “Indipendent”, è la limitata varietà ritmica dei pezzi che lo costituiscono. Sembra quasi che Wolf abbia scelto, per così dire, di mettere il pilota automatico e si sia preoccupato quindi sostanzialmente di trovare nuove idee e soluzioni mantenendo costante la velocità di bordo. Questo aspetto, nell’arco della durata del disco, e indipendentemente dall’umore col quale ci si avvicini ad esso, ne rende particolarmente difficile l’ascolto completo e, di più, soprattutto a causa dei brani più lunghi, minaccia il lavoro dell’antipatica compagnia di aggettivi quali “logorroico” e “soporifero”. Se a questo aggiungiamo che la prima metà del disco mi sembra superiore alla seconda capirete come quanto appena detto possa rivelarsi in fase di bilancio conclusivo più che un rischio.

Non mancano episodi più azzeccati e riusciti di altri, come la leggermente più sostenuta “Time To Realign” o la successiva “Silhouette Paintings”, ed è davvero tangibile in tutto il disco la cura e la partecipazione emozionale del suo creatore, ma qualche variazione in più in mezzo a tante atmosfere cupe, rallentate e malinconiche, come già detto, non avrebbe certo stonato. Detto questo vi consiglio di provarlo, a patto che non vogliate solo sbattere il capoccione o che apprezziate solo le prime pubblicazioni del gruppo.

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