Due parole per Plague Angel: devastante e vittorioso. Due termini non scelti a caso, ma che segnano l’uno la ferocia infernale sprigionata dalle note di questo album, l’altro il trionfo di uno dei gruppi che, volenti o nolenti, ha tracciato importanti pagine nella storia del black metal e oggi si dimostra ispirato e agguerrito più che mai.
Finalmente infatti, i Marduk ci regalano un album sopra le righe dopo le prove poco soddisfacenti di “La grande danse macabre” e il migliorato, ma non completamente maturo, “World Funeral”. E a questo risultato arrivano nonostante i cambi di line up che avevano lasciato perplessi e preoccupati un po’ tutti i vecchi seguaci. Anzi, sembra quasi che l’allontanamento di due pezzi importanti del gruppo come lo storico cantante Legion e il bassista B.War, abbiamo infuso nei reduci, nuovo entusiasmo e nuova vitalità. Di chi sia la colpa della stanchezza emersa negli album precedenti non lo sapremo mai, resta il fatto che adesso i Marduk stupiscono per la freschezza d’ispirazione e di composizione, regalandoci dei brani davvero coinvolgenti.
A rendere ancora più letali questi colpi inflittici dalle undici tracce contribuisce anche il cantato di Mortuus (ex Funeral Mist), che non fa rimpiangere molto la tipica vena monocorde di Legion, ma anzi si dimostra più versatile e capace di adattarsi alle differenti metriche che la lucidità di Morgan (chitarra e mente leggendaria del gruppo) ha costruito in queste undici pugnalate. Ed è questo il vero punto di forza delle canzoni, il brillante songwriting, che da una parte mantiene la potenza e ferocia assassina dello stile Marduk, dall’altra si arricchisce di trovate che danno un sapore sinistro e infernale alle canzoni.
Il massimo della genialità si ritrova in due possibili hits del futuro, la terza “Seven Angels, Seven Trumpets”, brano mozzafiato che rende ancora più densa l’aria sulfurea e già irrespirabile, e la sesta “Perish In Flames”, con il suo procedere rallentato che ricorda un po’ successi del passato. Ma non è certo perso il trademark dei vecchi Marduk: velocità, impatto, violenza rimangono e si mescolano in toni funesti e minacciosi, rendendo tutte le canzoni ancora più micidiali. Fra le tracce che seguono il classico andamento marziale e assassino sono particolarmente meritevoli l’ottava “Warschau” e l’undicesima “Blutrache”. Interessante e affascinante si dimostra anche la prova più atmosferica tentata e riuscita nella nona “Deathmarch”, stacco esclusivamente strumentale animato da toni sulfurei e militareschi che i Marduk hanno realizzato con l’aiuto del gruppo industrial svedese Arditi. Da queste prove è quindi facile costatare come i Marduk siano riusciti a creare un’opera più variegata che in passato, che non pecca di piattezza, ma riesce a far risalire il gruppo da quel pericoloso baratro in cui sembrava essere piombato. L’attacco sferratoci da questi brani viene reso ancora più massacrante dall’incredibile performance del batterista Emil Dragutinovic, così letale e perfetto da sembrare inumano.
Ultima nota tecnica, i Marduk hanno scelto di non registrare questa loro prova nei consueti Abyss Studio e il suono ne ha giovato molto. Non si ha più quella freddezza cristallina che forse era più adatta al suono di un gruppo death, ma la produzione resta chiara e compatta, adattissima a un gruppo che ha sempre puntato sull’impatto e la violenza sprigionata dalle sue canzoni.
Con Plague Angel i Marduk hanno trionfato: Heaven Shall Burn…!