E’ come risvegliarsi da un sogno piacevole. Come aver appena terminato un viaggio verso l’ignoto. Come aver viaggiato con la mente nello spazio più sconosciuto. E quando tutto questo ha termine, ritrovarsi con ancora la pelle d’oca e i brividi addosso, consapevoli di essere stati partecipi di qualcosa di veramente unico e magico. Sensazioni, queste, che leggendole non sembrerebbero collegarsi o riferirsi alla musica di un disco, ma invece sono proprio le cose che passano per la testa e per il corpo dopo aver terminato l’ascolto del nuovo cd dei Mastodon, ovvero l’immenso “Crack The Skye”.
Tutti sono ormai consapevoli del successo, meritato, che sta avendo il quartetto americano. Quella che balza alle orecchie è una sorta di evoluzione stilistica, partita dall’abbastanza “cattivo” “Remission”, passando per due assoluti capolavori quali “Leviathan” e “Blood Mountain”, per arrivare all’opera magna, al prodotto forse definitivo, che credetemi, sarà difficile da poter battere in fatto di bontà. I Mastodon ripartono da “The Czar” e “The Last Baron”. La prima dura quasi dieci minuti, la seconda ben tredici. Ora, non voglio separare due canzoni da un contesto perfetto e indivisibile, ma se devo scegliere il modo per spiegare quello che sono diventati i nostri e lodare le vette compositive che hanno raggiunto, ecco che questi due brani dimostrano come nessuno in questo momento sia in grado di scrivere della musica così perfetta e inclassificabile allo stesso tempo. E se vi dico che stavolta, dovendo per forza trovare un genere predominante, sono obbligato a tirar fuori il prog, capirete che le differenze col passato, sicuramente più estremo, sono moltissime. Ma limitarsi a ciò sarebbe alquanto riduttivo, visto che “Crack The Skye” vive di sensazioni, vive di intuizioni e ragionamenti che portano alla convivenza di tantissimi e diversi generi, che ci allietano regalandoci sette gemme dalle mille sfaccettature che, pur suonando puramente Mastodon, superano in quanto a maturità compositiva e perizia tecnica, la maggior parte dei prodotti che saturano il mercato discografico.
Forse mai mi è capitato di non trovare le parole necessarie per illustrare la qualità di un album. Ma qui è come se stessimo parlando di un libro, che lascia al lettore la facoltà di immaginare le scene che vengono narrate. Ed è appunto questo che scaturisce dal nuovo full-length, ovvero una sorta di libertà di interpretazione e immaginazione, che dona una qualità ancor più gigantesca ad un disco che già musicalmente parlando sarebbe al top.
Le differenze col passato sono chiare e marcate. La prima cosa con la quale ci si trova ad avere a che fare è l’abbandono totale del cantato “estremo/sporco”, che si va ad unire con l’aumento netto delle parti cantate dal bravo Brent Hinds, anche chitarrista. Troy Sanders, bassista e principale cantante, lascia spesso e volentieri spazio al collega, dotato di una voce particolarissima, quasi nasale, che ben si incunea nei meandri della complessità dell’opera. Da lodare come sempre anche il lavoro dietro le pelli del sempre più bravo Brann Dailor, che non finisce mai di stupire. Un altro punto di rottura con i precedenti opus discografici è la struttura stessa delle tracks. Solo sette pezzi, come già detto, però molto lunghi e complessi, a differenza ad esempio di “Blood Mountain” che di brani ne ha ben tredici. Questi sono forse, assieme all’ammorbidimento generale dei suoni, i principali cambiamenti. Va detto però che ad ogni ascolto il dischetto si lascia sempre più scoprire, una sola infarinatura non sarà mai e poi mai sufficiente per poter assimilarlo a dovere. Qui c’è il meglio del meglio dell’intera discografia del four piece, tra “Divinations”, la più classica e tirata del lotto, al gusto per la melodia che spunta fra i solchi della splendida “Quintessence”, all’unione di vecchio e nuovo che caratterizza l’emozionante “Ghost Of Karelia”. Ottime anche l’opener “Oblivion”, che non nasconde un retrogusto prettamente rock specialmente nel refrain azzeccatissimo, e la title track, complessa ed articolata come ormai i quattro ci hanno abituato. Già citati i due pezzi da novanta “The Czar” e “The Last Baron”, tutte da vivere e da godere pienamente nelle loro innumerevoli qualità e invenzioni.
Credo che dire di più non abbia senso, le ultime parole voglio spenderle per lodare per l’ennesima volta un album perfetto sotto ogni punto di vista, forte perfino nella produzione guarda caso mastodontica, e nello stupendo artwork (sembra un vero e proprio quadro, un po’ come già successo negli scorsi anni), che mette il punto esclamativo sul risultato finale, rendendo “Crack The Skye” una delle uscite fondamentali del 2009, che difficilmente non potrà non essere inserito nella top five dell’anno.
Per tutte queste motivazioni, il massimo dei voti è d’obbligo. Comprate a scatola chiusa, non pensate al genere, non limitatevi al fatto che i Mastodon magari non vi siano mai piaciuti, perchè questa è arte, e in quanto arte va rispettata e goduta fino in fondo. E qui vi chiedo per un attimo di dimenticare ogni cosa, concentrandovi solo su quello che le note che scorrono sono capaci di trasmettere, ovvero delle emozioni che raramente la musica è capace di dare.

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