Iniziano bene i Nachtgeschrei, perché l’intro folk strumentale acustica posta in apertura del nuovo impronunciabile Hoffnungsschimmer lascerebbe ben sperare ad un lavoro se non originalissimo quanto almeno fiero portatore di atmosfere eteree, percettibilmente oscure, permeate da quello spirito “pagano” che spesso plasma le venature di un genere particolare come questo. Purtroppo la sensazione iniziale si rivela poco più che un fuoco di paglia, dato che il sovrapopolato gruppo tedesco (ben sette elementi) non riesce quasi mai in questo album di debutto a concretizzare quelle che probabilmente sono le oneste e nobili intenzioni di partenza.
Gli strumenti usati sono moltissimi e fanno tutti parte dell’immaginario folk-celtico-medievale dell’appassionato medio, basti pensare ai vari flauti, cornamuse e fisarmoniche e questo certamente è un bene. Ma è purtroppo una condizione solamente necessaria ma non sufficiente proprio perché come in ogni birra (passatemi il paragone) le caratteristiche al contorno quali il bel bicchiere, la dolcezza del malto ed il bouquet apparentemente floreale non sono sempre indice di prodotto genuino e ben bilanciato, così anche nel metal, e forse in maniera maggiore in questa sua variante “folkloristica”, il suono di una cornamusa o l’utilizzo reiterato di un determinato tipo di arrangiamento non sono in grado da soli di fare musica vera. I musicisti sono qui anche coadiuvati da una produzione sufficientemente curata ma mostrano ancora l’ingenuità dell’esordiente, andando a realizzare brani dall’eccessiva semplicità, il cui riffing si pone a cavallo tra certo metal/rock melodico (si prendano ad esempio la pur valida title-track, Deine Spur e Windstill) ed il già citato folk più di forma che di sostanza (Lass Mich Raus, Die Flügel). Ad essere onesti, spiragli di miglioramento ci sono e qui citerei la ritmata ed articolata song strumentale Wuetis, nella quale i cambi di velocità vanno a complementarsi con diverse idee degne di nota, ed anche la ballata conclusiva Reise Zu Den Seen, che tra armoniche a bocca, chitarre acustiche e lingua madre crea e disegna piacevoli paesaggi dai toni propri dell’imbrunire estivo.
I paragoni con i grandi nomi del genere (e affini) tra cui In Extremo e Skyclad non sono probabilmente necessari né utili, vista l’insufficiente consistenza compositiva della proposta. Il folk è un genere difficile, normalmente non tanto dal punto di vista tecnico quanto dal lato del songwriting proprio perché è davvero facile cadere in banalità. In definitiva un disco non certamente imprescindibile e per chi improvvisamente si trovasse assetato di sonorità “popolari” e fiabesche, il consiglio è di investire altrove, magari sui i “vecchi” Otyg di Sagovindars Boning, i quali potrebbero presto rivelarsi un piacevole ed inaspettato “scacciapensieri”.