Qualcuno mi spieghi che fine hanno fatto gli Obituary di “Frozen In Time”. Ovvero quelli che con un monster album sono riusciti a zittire tutte le voci che mettevano in dubbio il senso di una reunion che pareva inutile, viste la credenze generali sul fatto che i cinque floridiani avessero già detto tutto in termini musicali negli anni passati. Poi, ecco la caduta improvvisa, con un inspiegabilmente piatto “Executioner’s Return”, segnato dall’incarcerazione del fondamentale chitarrista Allen west, sostituito da un Ralph Santolla decisamente un po’ fuori luogo con il suo gusto un po’ “barocco” per una proposta così semplice e diretta come quella dei nostri.
Il problema è che così le voci alle quali mi riferivo prima hanno ricominciato, e stavolta in modo più giustificato, a farsi risentire. Difficile rialzarsi dopo una prova così debole, superata perfino, in termini di bontà, dal progetto solista dei due fratelli Tardy, ovvero John e Donald, rispettivamente voce e batteria, da sempre indiscussi leader della formazione americana. Ed infatti ecco Darkest Day, che si pone esattamente sullo stesso, basso livello del precedente capitolo, senza purtroppo lasciare trasparire nulla che non sia già stato detto e stradetto nel corso degli anni. Certo, per carità, nessuno si aspetta chissà quali innovazioni da parte degli Obituary, visto che la loro carriera è sempre stata all’insegna del mantenimento di certi stili compositivi diventati, col passare del tempo, dei veri e propri trademarks del gruppo. Non si spiega però come mai “Frozen In Time” suonasse così fresco mentre ora ci dobbiamo accontentare di un compitino svolto in modo svogliato, come si percepisce dalle tredici tracce del dischetto, e senza infamia e senza lode. Certo, siamo pur sempre un passettino avanti rispetto ad alcune altre band, ma è anche vero che molte altre nuove leve si stanno facendo sotto, facendo sentire il loro fiato sul collo delle compagini più blasonate che non sempre convincono appieno.
Il death metal di “Darkest Day” è compatto, carico di groove come ci si aspetta, con i punti di forza dati, e non c’è nemmeno bisogno di dirlo, dalla batteria di Donald, precisa e devastante al punto giusto, e dalle indiavolate e riconoscibilissime vocals di John. Ma è tutto qui, niente di più, si può solo salvare il salvabile Quello che manca più di ogni altra cosa è il tappeto chitarristico, qui di scarsa qualità e con davvero poca ispirazione. Passi per Santolla, che come già detto qui non c’entra moltissimo, ma da Trevor Peres è levito aspettarsi molto, molto di più. Poi il basso di Frank watkins che qui si perde senza mai riuscire la bussola per rientrare nella strada giusta dell’aggressività e nella compattezza ritmica. Non credevo fosse possibile, ma questa volta, come per la precedente, arrivare alla fine delle tredici tracce del disco è un’impresa titanica, che metterebbe a dura prova anche il più incallito fan della band. Stupisce molto inoltre come tutto sia pervaso da un senso di artificiosità che mina la buona riuscita del full-length, specialmente alcuni riff che sembrano davvero messi lì a casaccio senza capo nè coda. Quasi come fossero un gruppetto di novellini alle prime armi.
Secca molto doverlo dire, ma stavolta, dopo due flop consecutivi, sembra che per i cinque storici death metallers sia giunto il momento di appendere gli strumenti al chiodo. Non sono solito fare affermazioni di questo genere, ma forse la soluzione migliore potrebbe essere solo quella di limitarsi alle performance on stage, quelle sì sempre convincenti e sugli scudi. Perchè la svogliatezza che si avverte dalle loro nuove tracce costringe al cento per cento di sconsigliare l’acquisto di “Darkest Days” un po’ a tutti, dato che in giro c’è di meglio, credetemi.
Ben venga il fatto di poter essere smentito in futuro, ma non credo sarà più possibile, visto che per adesso non c’è nemmeno un piccolissimo lumicino in fondo al tunnel.