Ancorati, nel bene e nel male, al nome di George “Corpsegrinder” Fisher, i Paths Of Possession giungono alla propria quarta prova in studio perseverando nell’atteggiamento ambiguo che ha scandito tutte le loro uscite discografiche. Nonostante un certo miglioramento di sound rispetto al precedente ‘Promises In Blood’, infatti, i cinque musicisti statunitensi non riescono ad offrire quel quid che gli permetterebbe quantomeno di uscire dal pantano di incompiutezza in cui continuano a racchiudersi da anni.
‘The End Of The Hour’ è l’ennesimo disco prodotto alla perfezione, ben suonato ma concepito con un bacino di idee limitate, cicliche e mal dosate. Il songwriting, rispetto all’uscita precedente, si affina restituendo un risultato più fluido e compatto, nel quale la voce del famoso singer meglio s’interfaccia con quella veste meno brutal a cui sembrava dover fare il callo. E’ naturale, dunque, che il platter venga a mostrarsi più godibile e piacevole grazie a quell’omogeneità tanto criticata in passato ed ora parzialmente centrata. Il sapore amaro del disco è quello inconfondibile giocato sull’acidità degli assoli, l’angoscia delle atmosfere ed una melodia beffarda che può ricordare i Carcass second-era. Un contesto qualitativamente cresciuto, a tratti positivo ma ancora “sufficiente” e scialbo all’orecchio degli ascoltatori più esigenti. Il processo di integrazione tra death statunitense, sprazzi di thrash e melodie swedish continua con una un passo tanto chiaro, quanto lento ed irritante, che poco sembra aggiungere nell’economia di una band “notata” per questioni di line-up e poco altro. C’è chi di chitarroni old-style, tradizione e cattiveria si accontenta; tutti gli altri possono virare altrove.