Tornare e non sentire lo scroscio d’applausi a cui si è tipicamente abituati. Ai Queens Of The Stone Age era successo, meritatamente, con il precedente ‘Lullabies To Paralyze’ e, nonostante qualche tangibile miglioramento, il rischio di repliche sembra essere in agguato con l’avvento della nuova, e già discussa, creatura.
Nonostante le disparate e fantasiose interpretazioni che si attribuiranno ad ‘Era Vulgaris’, l’obiettivo fondamentale, nell’opera dei provati orfani di Nick Oliveri, sembra chiaramente fondato sulla continuità del discorso musicale intrapreso due anni fa. Un incedere che rispetto al passato si fa, dunque, molto meno aggressivo, più pop e caratterizzato dalla ricerca di una sorta di magica psichedelia. E’ così che, nelle undici composizioni del disco in questione, vengono rilanciati, con una spasmodica enfasi, suoni al limite del lo-fi ed un approccio acido, incentrato su una cacofonia voluta e beffarda. Nel quadro illustrato, non fa eccezione la performance di un Jash Hamme che, proporzionalmente al suo songwriting, diventa sempre più debole e mielosa, sconfinando spesso e volentieri in territori brit-pop. Un contesto, nella sua totale e globale perfezione, irritante e difficile da digerire per chiunque avesse osannato i capolavori passati. Non è allora un caso se, dopo un’iterata serie di godibili ma ineffabili ascolti, siano pochi gli episodi che rimangono a dispetto di un sostanzioso minutaggio. Superati indenni sprazzi di “intelligente piattezza”, perle come la concretissima “3’s & 7’s” o l’irregolare e coraggiosa ‘Run Pig Run’ (ovvero le sperimentazioni del disco che vanno a segno), restituiscono al pubblico la speranza di un futuro che non sia caratterizzato da soli miglioramenti incompiuti. Quelli che caratterizzano “Era Vulgaris” sono per il momento tangibili, necessari per convincersi di non essere al cospetto di una band qualunque, ma ancora insufficienti per riconoscere i Queens Of Stone Age. Che i pochi sprazzi di genio servano da indicazione per…