Ecco qui il settimo album dei tesesconi Sacred Steel, band che da sempre ha diviso critica e pubblico, ma che imperterrita continua per la sua strada nel mondo del metal più incontaminato!
Il sound e l’approccio dei nostri, manco a dirlo, non è cambiato di una virgola e questo “Carnage Victory” ce li restituisce in forma smagliante!
L’inizio è una decisa mazzata in mezzo ai denti che risponde al nome di Charge Into Overkill, pezzo feroce e senza compromessi che pare sfociare addirittura nel thrash: deciso e cattivo, sembra essere stato concepito per non fare prigionieri! La successiva Don’t Break The Oath fin dal titolo è un chiaro omaggio al Re Diamante e ai suoi Mercyful Fate, il refrain è molto melodico (per gli standard del gruppo) e il cantato è chiaramente ispirato al cantante danese. Ma è proprio il singer Gerrit Mutz a sfoderare per tutto il disco una prestazione davvero convincente e sentita. Spesso amato/odiato per il suo particolare timbro, Mutz riesce a interpretare al meglio le diverse liriche dei brani. Così nella titletrack, il singer si fa a tratti duro, a tratti “drammatico”, per sottolineare gli orrori del campo di battaglia. Compatta e precisa la prestazione degli strumentisti: riffing granitico e ritmiche potenti ma al contempo sufficientemente varie. Altro pezzo forte del disco è Broken Rites, dove i nostri trattano un argomento scomodo come la pedofilia tra i rappresentanti del clero…e Gerrit non gliele manda certo a dire, a suon di fuck e con una performance alquanto incazzata!
L’amore dei Sacred Steel per il doom più plumbeo traspare nel pezzo Ceremonial Magician Of The Left Hand Path introdotto da una chitarra acustica dal vago sapore cadlemassiano per poi sfociare in un riff pesante e ossessivo. Di più facile respiro la maideniana The Skeleton Key, ispirata all’omonimo horror movie. Denial Of Judas (preceduto dal breve intro acustico, Shadows Of Reprisal) è forse il pezzo migliore del lotto in cui i Sacred Steel cercano di convogliare tutta la loro passione e i diversi tratti del metal ’80 style alternando momenti evocativi a un riffing tagliente interrotto da un coro decisamente più lento e plumbeo. Poteva mancare il pezzo tamarro capace di far impallidire anche i più convinti Manowar (con le mutande di pelle di bisonte)? La risposta è ovviamente no! E infatti Metal Underground è un inno al metal più becero e intransigente, con la voce di Mutz che si fa “stupida” al punto giusto, supportata da un riff di chitarra tanto semplice quanto ad adatto alla song in questione! L’ultimo pezzo pare invece voler riprendere il discorso iniziato con l’opener del disco, grazie a ritmi serrati e all’uso del growling.
In conclusione ci troviamo di fronte a un disco ben concepito che farà felice tutti quelli che amano far rotear la testa a colpi di metallo cazzuto e puro. I “palati fini” si rivolgano pure altrove.