L’attenzione e la cura per ogni minuzioso particolare utilizzata dagli Shoreborn nel produrre e confezionare questo lavoro autoprodotto, è il sintomo dell’immensa passione di questi quattro ragazzi verso la musica. Quella stessa musica che in “Create Don’t Be A Slave” si offre come limpido specchio delle indubbie qualità compositive della band in questione. Il quartetto, finalmente assestatosi dopo innumerevoli avvicendamenti interni alla line-up, giunge al secondo episodio discografico della propria carriera con una maturità ed un’intelligenza compositiva invidiabili. I cinque brani proposti riescono, sin da subito, a risultare piacevolmente privi delle ingenuità che solitamente costellano dischi di questo genere sottoforma di scelte eccessive e stonate. Il death melodico degli Shoreborn è, invece, investito durante tutta la durata del platter da un senso di sobrietà e compostezza che, pur facendo perdere leggermente groove alle composizioni, rende un aspetto quadrato ed equilibrato. I suoni prediligono la componente più heavy e tecnica del genere, quella che alle atmosfere preferisce l’asprezza e a tastiere e sintetizzatori la solidità e la tradizione delle sei corde sempre in primo piano. Il doppio ruolo del frontman Paolo è egregio alle puntualissime chitarre mentre necessiterebbe di qualche accorgimento a livello vocale dove le ottime capacità interpretative non sono eguagliate da pari varietà di soluzioni. In sostanza, quello che emerge da “Create Don’t Be A Slave”, è un bilancio più che postitivo che offre agli Shoreborn una buona opportunità per attirare l’attenzione degli addetti ai lavori e meritarsi ammirazione e rispetto (e forse anche un contratto?).