Eccola finalmente; ad essere onesto ho dovuto impegnarmi non poco per scrivere questa “recensione”, il disco in questione ha richiesto numerosi e ripetuti ascolti prima di manifestarsi per ciò che realmente è, ossia, un buon disco… ma procediamo con ordine.
I Soilwork, con i primi due lavori, ci hanno abituato a sonorità che non saprei come definire se non “cattive”; riff veloci e taglienti, thrash, ed una sessione ritmica da paura, il tutto contornato dal growl urlato, superbo, di “SPEED” Strid. Poi cambiano etichetta, lasciano la Listenable ed abbracciano mamma Nuclear. Sfornano A Predator’s Portrait, un disco ambiguo che segna un cambiamento dei nostri. Nel sound trovano posto le tastiere, “SPEED” Strid si cimenta in parti di voce pulita e la band solleva vistosamente il piede dall’acceleratore. Parte dei fan della band iniziano a storcere il naso e, almeno per quanto riguarda l’italia, si sente parlare di prestazioni live deludenti.
Insomma oggi con Natural Born Chaos, fan e critica aspettavano una conferma, un chiarimento sulla strada intrapresa dalla band; i nostri dal canto loro, rispettando la loro fama di band “sorpresa/sorprendente” (non dimentichiamo che, usciti dal nulla, subito attirarono l’attenzione di tutti con l’ottimo Steelbath… n.d.a.), affidano la produzione di N.B.C. al pazzoide canadese nonchè geniale Devid Townsend il quale provvede a dare una bella mescolata ai vecchi ingredienti. Il risultato è un disco che, pur’essendo un’ottima insalata, a mio avviso, scarseggia di un ingrediente fondamentale per una band come i Soilwork: l’aggressività!
Ma questa è l’unica pecca che sia riuscito a trovare nel disco, poche band nel panorama metal oggi hanno sonorità simili a quelle del gruppo svedese. I capitoli degni di nota in Natural Born Chaos sono tanti a partire dal tris iniziale con la tagliente “Follow the Hollow”, in cui il thrash degli esordi torna a sprazzi,la buona “As We Speak” e la nevermoriana “The Flameout” (forse più di una citazione alla band di Seattle n.d.a.). Poi è la volta della titletrack ed all’improvviso arriva, a parere di scrive, l’essenza del disco stesso, “The Bringer”, una song grandiosa che con i suoi continui cambi di tempo, l’alternanza di growl e voce pulita (che alla luce di questo brano pare addirittura abusata nel resto dell’album n.d.a.), i riff veloci ed i ritornelli catchy, mi fa veramente sperare che il futuro della band sia in questa direzione. Altre due song meritano di essere menzionate, la bellissima “Soilworker’s Song of the Damned”, e il pezzo che a mio avviso potrebbe essere il singolo commerciale del disco, “Black Star Deceiver”, entrambe ulteriormente avvalorate da due strepitosi duetti tra David e “SPEED” Strid.
Ecco perchè mi sento di dire che si tratta di un buon disco, attendo la band live in Italia, non mancherò di certo. Infine mi sento di chiudere con una frase che non potrà non accendere polemica tra i kids, ma fa sempre bene ed accende le discussioni; Secondo me, se non fosse un disco dei Soilwork, ancora si starebbe urlando al miracolo…