Emmobastaveramenteperò!!!

E questi vendono di dischi!!

Inizio questa recensione citando due eroi dei tempi recenti (per chi non li avesse riconosciuti, Maccio Capatonda e Pino Scotto) per manifestare il mio totale disappunto verso questo “Pariah’s Child”, il nuovo album dei Sonata Arctica. Ma lasciamo la parola anche a Tony Kakko (il destino nel nome?), cantante e leader della band, che si esprime così prima dell’uscita del disco:

Dato che la musica dell’album verte più sui vecchi Sonata, il che significa più elementi power metal e molti lupi qua e là nelle canzoni, è chiaro abbiamo bisogno di un lupo in copertina. Un lupo abbandonato, un paria. O meglio, un figlio di paria. La nuova generazione a riportare indietro il vecchio logo.

Certo…basta mettere il vecchio logo e un lupo in copertina e il gioco è fatto: orde di metallari rincoglioniti e lobotomizzati corrono a comprare il disco! Benché la band stessa (come pure fa il colosso Nuclear Blast) si autodefinisca “power”, qui di power (e di metal) ne troverete ben poco, per non dire nulla. Anzi, “Pariah’s Child” è un disco di natale. Ma un disco di natale brutto! E dichiarazioni di questo tipo servono unicamente per prendere per il culo i fans.
Quando ho ascoltato per la prima volta il singolo The Wolves Die Young sono rimasto allibito…poi mi son detto “beh…dopo tutto è il singolo, è quasi normale che sia una cagata commerciale…”. Purtroppo The Wolves Die Young si rivela come una delle tracce meno peggio dell’albrum… e ho detto tutto!
Ma entriamo più nel dettaglio: cosa ci offre questo “Pariah’s Child”? Tante, tante tastiere festaiole, una produzione esageratamente pompata, che mette in evidenza appunto le tastiere e la voce, relegando in secondo piano la chitarra (ma stiamo parlando di un disco “power” o di un disco pop?) e il basso…e il bello è che proprio il bassista pare abbia curato la produzione!
E le canzoni? Le canzoni sono brani della colonna sonora dei Puffi, in cui folletti e gnomi canterini danzano e ballano, allegri e spensierati. Melodie e cori davvero insopportabili che non canticchierei nemmeno guardando un episiodio dei Pokemon! Se non ci credete ascoltatevi Running Lights o Cloud Factory e poi sappiatemi dire. A confronto i Freedom Call sembrano death metal!
Che dire delle tastiere effetto “campanellino” di Take One Breath? Mi raccomando, prendete un bel respiro prima di ascoltala, rimarrete senza fiato! In Half A Marathon Man ritornano quei fastidiosi rimandi pseudo rock che non sono proprio nelle corde della band.
Rimetto il dito nella piaga citando la ballad Love, originale e fresca quanto il suo titolo. Lenta e melensa, non decolla mai, complice una parte vocale da sonno istantaneo – o sarebbe meglio dire da coma irreversibile.
Da colonna sonora di cartoon la suite finale Larger Than Life che, tra effetti “bombastici” e cori ridicoli, perpetra l’agonia per ben 10 minuti.
Dal pattume generale salvo (a fatica) Blood, piuttosto articolata e dotata di un discreto coro, e What Did You Do In The War, Dad?, più intimista, con un testo più introspettivo.
Cosa ci resta dunque dei Sonata Arctica? Dei bravi musicisti, sicuramente, (ma se fai suonare anche a Paganini una schifezza, quello che otterrai sarà sempre una schifezza!), un cantante e un compositore mediocre, in evidente crisi d’identità e carenza di idee.
Se deciderete di supportare dischi come questo (liberissimi di sbattere via i vostri soldi come meglio credete), la scena andrà a morire, a discapito di band veramente meritevoli che ci sono in giro.

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