La storia di questa band incomincia nel lontano 1984 grazie all’incontro di due musicisti provenienti dalla Svezia: Peter Grundström e il poliedrico Jan Åkesson.
Ai quei tempi Peter suonava con i Whitelight, una delle tante band hard rock fortemente influenzate da Deep Purle, Led Zeppelin e poi da Whitesnake, Journey, Toto, Riot, Dokken. Conosciuto Peter, Jan lasciò ogni suo progetto per unirsi alla band. In seguito, per una ragione e per l’altra, il connubio fra Peter e Jan cesserà di esistere e i due prenderanno strade diverse suonando in altre band e avviando progetti soliti.
Arrivano così gli ultimi anni dei ‘90, Peter e Jan si rincontrano e decidono di mettere insieme un nuovo progetto e chiamarlo Stonelake.
Le influenze precedenti continuano ad accompagnarli ancora fino ad oggi, ma lasciano spazio anche ad influenze più heavy metal (mi viene in mente Dio) e persino più “estreme” (e sto pensando a certi riff dei Metallica) che faranno degli Stonelake una band che suona metal melodico più che hard rock.
Dopo il full-lenght di debutto “Reincarnation” (e di reincarnazione pare che si sia proprio trattato), producono oggi un nuovo album che si intitola “World Entry”. L’ambiente è sempre quello di “Casa Svezia”, è stato registrato durante il “Summer and Fall 2006” e mixato presso i Roastinghouse Studios da Jan Åkesson, Pontus Lindmark e Anders ”Theo” Theander, ma l’etichetta è la tedesca Metal Heaven.
“World Entry” è un disco composto da melodie pulite e cadenzate. Basta ascoltare la prima traccia o “World Are Not Enough” che avvicina gli Stonelake persino ad un Bon Jovi di primo successo. Il ritornello rischia di diventare trito e ritrito talmente è una ballata perfetta e lineare, lineare forse troppo al punto da scivolare nel già sentito. La musica di questa band, formatasi alle porte nel nuovo millennio ma con entrambi i piedi negli anni ’80, è una musica accessibile a tutti. Non c’è nulla di particolarmente complesso, nemmeno nel songwriting. Tutto sembra essere un inno dei tempi che furono e che non torneranno mai più. Durante l’ascolto è possibile notare alcuni passaggi (parlo di quel qualcosa del “tipo” Metallica che, a volte, le chitarre suonano) e delle influenze, diciamo, più moderne che sembrano svelare una necessità di sperimentazione da parte del gruppo. Peccato che questi sporadici tentativi passano inosservati nel marasma di suoni nitidi e cadenzati che le due “madri” della band suonano dagli esordi fino ad oggi, “World Entry” compreso. Stesso motivo per cui le loro sperimentazioni (prendiamo ad esempio “City of Illusion”) sembrano alla fine cozzare e stridere nell’insieme del disco. Spezzano l’andatura perfettamente lineare che salva questo lavoro, sicuramente una realizzazione che non ha nulla di originale né di particolarmente creativo, ma che risulta comunque piacevole all’ascolto, almeno per i nostalgici del genere.