Gli Stormzone nascono nel 2005 in quel di Belfast, sotto il comando del cantante John Harbinson e con la chicca di avere dietro alle pelli nientemeno che Davy Bates, ex batterista degli Sweet Savage, storica band della NWOBHM che attirò persino l’attenzione dei Metallica, i quali coverizzarono sul lato B di “Unforgiven” il brano “Killing Time”.
Questo terzo album, dopo il precedente “Death Dealer” (co-prodotto da Neal Key, leggendaria figura della NWOBHM), mostra un taglio dei brani più diretto, anche se i tempi sono sempre piuttosto lunghi, con una media circa dei sei minuti a brano.
La opener “Where We Belong” introduce il disco con una linea melodica piuttosto melense, accompagnata da riff massicci buoni solo, mentre con la title-track “Zero To Rage” troviamo una traccia che superato l’inizio piuttosto statico sprigiona una buona carica esplosiva.
Un ritmo cadenzato introduce “Jester’s Laughter”, traccia che personalmente non ha smosso particolarmente il mio interesse e che ho trovato anzi, piuttosto pomposa; con la successiva “This Is Our Victory” troviamo invece un chorus appetibile che rimane impresso in testa, anche se musicalmente ancora il disco non è riuscito a convincermi con il suo sound a tratti sottotono ed a tratti esplosivo.
Gli assoli di chitarra, davvero di gran gusto, risollevano ogni qualvolta il giudizio dei brani attirando l’attenzione dell’ascoltatore per la loro potenza e per la tecnica impeccabile; “Fear Hotel” mostra un inizio più truce con uno svolgimento decisamente più coinvolgente del brano precedente.
“Hail The Brave”, brano dai toni epici scorre piuttosto in fretta, mentre con “Uprising”, la traccia più breve del disco, a mio parere abbiamo una melodia troppo ripetitiva.
Un arpeggio di chitarra acustica introduce poi la bella “Last Man Fighting”, brano di tutto rispetto che incorpora un’ottima dose di potenza e di buon gusto ad adornare sette minuti e ventisei secondi di heavy metal. A mio parere il brano migliore della composizione insieme alla title-track.
Anche “Empire Of Fire” tiene i ritmi alti, convincendo l’ascoltatore che con le ultime tracce del cd i brani si fanno meno dispersivi e più interessanti; altra dimostrazione ne è “Monster”, dalla linea chitarristica davvero travolgente.
Il finale arriva con “Cachulainn’s Story”, dove ancora una volta la voce acuta e potente di Harv si mette in mostra, purtroppo su un brano che a mio parere dopo un po’ diventa troppo ripetitivo.
Questo disco infatti, è composto da artisti di grande tecnica ed esperienza che purtroppo hanno dato vita ad un disco troppo dispersivo ed a tratti pomposo, nonostante il tutto sia intervallato da brani e punti molto più interessanti.
Il punto debole di questa uscita rimane per me il fatto che le tracce non rimangono impresse in testa, un po’ per la lunghezza o per come sono stati strutturati, diventando così l’ascolto adatto per un sottofondo musicale per la casa, non di certo per avere uno scarico di adrenalina come dovrebbe essere questo genere.
Personalmente non lo trovo un acquisto da consigliare, spero che con la prossima uscita i toni di questa band tornino più aggressivi e senza troppi cavilli.