Secondo disco per gli Stravaganzza, gruppo che, passo dopo passo, si sta facendo strada nella florida scena metal iberica aggiungendosi a nomi storici del calibro di Mago de Oz, Tierra Santa, Avalanch, Saratoga e Warcry.
Una delle caratteristiche che, a mio modesto parere, rende questo gruppo realmente apprezzabile è la coraggiosa scelta di cantare in lingua madre, pur sapendo che lo spagnolo è una lingua la cui cadenza e pronuncia poco si sposa con il genere Heavy. Il prodotto che mi accingo a recensire è una miscela di Heavy metal classico, atmosfere gotiche, Power sinfonico, Death e Prog. Ma lasciamo che sia la musica a parlare. L’album si apre alla grande con una serie di pezzi veramente interessanti, “Mieda”, brano caratterizzato da un intro letteralmente terrificante e degno dei migliori film horror, “Esperanza”, stupendo pezzo tempestato da una serie funambolica di assoli di chitarra che fanno tornare in mente i nostrani Rhapsody Of Fire, “Impotencia”, un ottimo mid tempo il cui inizio sembra quasi un’invocazione ma che subito dopo sciorina tutta la sua potenza devastante grazie anche al maestoso lavoro della sezione ritmica magistralmente orchestrata dal basso di Edu Fernandez e dalla batteria di Dani Perez, “Arrepentimento”, autentica mazzata sonora introdotta da un duello chitarra/tastiera di rara potenza, con un ritmo molto sostenuto che non concede la benché minima tregua, un vero e proprio spaccaossa appositamente creato per essere eseguito in sede live, “Odio” il cui titolo è già un programma, un vero inno alla rivolta, in incitamento a buttare fuori tutto ciò che si cova dentro, “Frustracion” e “Soledad”, due autentici brani spaccaossa che, con i loro riff che miscelano Heavy, Power, Prog, Death ed elettronica, risultano essere accattivanti ed orecchiabili senza scadere mai nello scontato; il gruppo si concede un attimo di tregua con le maestose ballate “Pasion” e “Desillusion” che, con il loro incedere intimista e riflessivo, fanno venir voglia di chiudere gli occhi e di lasciarsi letteralmente cullare dalle note che sembrano quasi un’invocazione. Citazione a parte merita la conclusiva “Dolor”, un brano caratterizzato da un coro iniziale che fa tornare in mente i vecchi canti gregoriani e da uno splendido duetto voce/pianoforte che fa da tappeto sonoro per l’irrompere maestoso del resto del gruppo.
Ma il vero valore aggiunto di questo album è il magistrale lavoro svolto dall’eclettico chitarrista e tastierista Pepe Herrero, che, grazie alla sua spiccata attitudine rivolta alla composizione dei brani, è riuscito, in maniera sagace ed ingegnosa, ad inserire momenti violenti ed aggressivi alternandoli ad altri armoniosi e melodrammatici, riuscendo così a dare un ruolo molto importante alle orchestrazioni. Unico neo del disco è la produzione che non rende completamente l’idea del reale valore della band. Non resta che attendere il loro terzo album per poter esprimere un giudizio completo.