L’eco sublime di quel meraviglioso episodio discografico intitolato “Toxicity” aleggia ancora forte nell’aria. Troppo facile nascondere la propria trascurabile voce sotto tanto rumore all’alba del suo successore. Troppo facile appellarsi al banalissimo concetto di flop annunciato per qualcosa che, come qualunque altro tentativo musicale di stesso genere che tenti di avvicinarlo, gli è (quasi per natura) inferiore. Sarebbe, dunque, un grave errore rifarsi all’ombra di “un passato ancora presente” per non tributare i giusti meriti ad una band che, per quel che se ne possa dire, ha dato l’ennesima dimostrazione della propria indiscutibile classe.
Con ogni probabilità “Mezmerize” (che sarà seguito tra già sei mesi da “Hypnotize”) è il più accessibile dei tre full-lenght sin ora dati alla luce dalla formazione armena: un disco che può far storcere il naso ai soliti detrattori per l’elasticità con cui riesce ad esercitare lo stesso fascino sul quattordicenne pseudo-alternativo così come sugli ascoltatori più “navigati”. Nonostante tutte le critiche che si possano avanzare la verità è che l’integrità con cui questi quattro ragazzi riescono a far convivere nella stessa opera folk armeno, rock-pop, crossover, metal estremo (sì, c’è scritto proprio così) ed una miriade di altri elementi è un’arte e nient’altro.
Le linee vocali, meno graffianti dei primi due dischi, si sono ancora una volta stupendamente evolute. Il camaleontico Serj Tankian infatti, frenando l’esplosività che aveva prediletto in passato, ha dato molto più spazio all’alternanza di vocalizzi molto melodici con quelli più isterici e schizzati concretizzati anche dai sempre più frequenti interventi Shavo. Per tutto il resto i System Of A Down sono rimasti sè stessi con uno stile che, con soli tre episodi discografici (trascurando “Steal This Album”), è riuscito a diventare un riconoscibilissimo ed inimitabile marchio di fabbrica. Si allentano i tempi, si ammorbidiscono i ritornelli, aumenta il fattore nevrotico dettato dalla rabbia che si ha dentro ma rimane, tuttavia, utopistico pensare di non rendersi conto di chi si è al cospetto.
Al solito le sensazioni che riescono ad emanare i brani sono stupendamente in linea con l’aspetto lirico dell’opera. All’ascolto di questo disco si alterneranno davanti agli occhi le immagini cerebrali di un ridente americano medio, in una calda giornata d’estate, sul suo squallido divano a fare i conti con l’aver preso coscienza che tutte le immagini di ricchezza e felicità danzanti sullo schermo della propria TV sono nient’altro che un’illusione. Hollywood non è per tutti, al contrario di un disco come questo che, seppur suonato da quattro ragazzi senza nè borchie nè perizoma in pelle di truzzo, è in grado di offrire tutta le sue cristalline, stupende immagini a chiunque gli si accosti con rispetto e mente sgombra.