Che succede quando un gruppo (X) ottiene l’ammirazione di stampa e fans con un album d’esordio (Y) assolutamente incredibile? Bè, probabilmente succede che tale livello di qualità musicale (Z) potrebbe diventare difficile da mantenere col passare del tempo e degli album…
I The Tangent sarebbero i protagonisti di quest’equazione da sbrogliare: dall’album di debutto “The Music That Died Alone” datato 2003 infatti sono trascorsi tre anni e la musica è (seppur moderatamente) cambiata, ma fortunatamente il carisma, l’esperienza e la dedizione che questa band mette nel comporre i propri album li pone tra i pochi a potersi permettere un debut-album al fulmicotone e di mantenere a distanza degli anni la brillantezza degli albori.
Nessun passo considerabile falso finora per questo supergruppo di amici e musicofili e men che meno lo è questo ultimo capitolo discografico intitolato “A Place in the Queue”, sul mercato già da qualche mese.
Che il gruppo viva un po’ nella nostalgia dei ’70 non è un segreto e mai lo hanno nascosto, basta ascoltare un minuto qualsiasi di una qualsiasi loro canzone per accorgersene: ELP, Hatfield & The North, Caravan e Yes sono incessanti fonti che emanano ispirazione ad ogni ascolto e come testimoniano gli utilizzi di organi e mellotron lo spettro progressivo degli anni settanta è onnipresente e praticamente palpabile.
Altro chiodo fisso dei The Tangent sono certamente i pezzi dalla durata che si avvicina alla mezz’ora, non è una sorpresa che anche su “A Place in the Queue” quindi fossero presenti tali coraggiose opere; di fatti la prima come l’ultima traccia dell’album non smentiscono quella che ormai è una tradizione che si ripete di cd in cd: rispettivamente venti e venticinque minuti di durata.
La problematica per antonomasia di composizioni così lunghe e complesse è la ripetitività, croce che tante band si trascinano appresso da sempre, ma per fortuna questo non è un problema che riguarda i TT: la padronanza tecnica, il gusto musicale e la fantasia di cui è dotato l’organico và oltre la media, permettendo loro di giocare coi minuti fino a far perdere la cognizione del tempo all’ascoltatore inebriandolo.
Tanti sono gli aspetti sotto ai quali “A Place in the Queue” andrebbe analizzato, ma solo mediante il ripetersi degli ascolti lo si può apprezzare nella sua interezza, come l’afflato spaziale/astrale di cui è permeata “Follow your Leaders” o la sperimentale progressività di “GPS Culture”, non giudicabili con troppa immediatezza.
Tirando le somme ci troviamo davanti ad un bel album, un lavoro che merita più di un ascolto per essere ben gustato ed assimilato, in pratica un po’ diverso (soprattutto meno immediato) dal loro capolavoro “The Music That Died Alone” (che consiglierei a chi desiderasse scoprire questa band).