Si ripresentano così i Vision Of Atlantis, con una cover artwork ad opera del famigerato Anthony Clarkson (Blind Guardian, Exodus, Hypocrisy) ed un nuovo disco che si prospetta come il più ridondante e potente della loro carriera.
Il terzo lavoro ufficiale degli americani, infatti, raccoglie l’eredità e la scia di entusiasmo sorto attorno ai precedenti “Cast Away” ed “Eternal Endless Infinity”, album che hanno contribuito ad incrementare la fama della band e della loro proposta musicale. Dopo la dipartita di ben tre membri originari, ora i Vision Of Atlantis hanno leggermente smussato qualcosa del loro metal sinfonico senza per questo rinnegare le proprie radici artistiche.
Fatto sta che dopo la dipartita della brava Tarja Turunen dai Nightwish, i Vision Of Atlantis hanno l’obbligo di giocarsi al meglio le proprie carte, sfruttando la situazione di stallo della compagine di riferimento e promuovendo nel migliore dei modi un lavoro come questo “Trinity” che può contare, senza alcun indugio, su molte ottime composizioni. Innanzi tutto ci troviamo dinanzi ad una produzione musicale di pregevole fattura, complice l’operato perfetto dei Dreamscape Studios e dei Finnvox di Helsinki. In seconda analisi, “Trinity” può vantare alcune papabili hit (“My Dark Side Home”, “At The Back Of Beyond”, “The Poem”) e tutta una serie di ottimi pezzi che rendono sempre valido il disco in se. La prestazione della band risulta estremamente convincente anche in sede esecutiva, laddove l’accoppiata Mario/Melissa da il meglio di se in un’alternanza quasi perfetta di melodia ed aggressività. Altro aspetto fondamentale di questo “Trinity” è l’utilizzo di arrangiamenti eleganti ed ampollosi, forse al limite degli schemi precostituiti del genere eppure così importanti ai fini della riuscita finale dell’album.
Un album che si snoda senza troppi problemi tra metal sinfonico, gothic, power prog ed altre piccole sfumature musicali che contribuiscono ad allargare il bacino d’utenza di una band in crescita ed in costante miglioramento. L’arrivo della soprano Melissa Ferlaak, laureata al conservatorio di Boston e già impegnata in opere come “La Boheme”, dona alla band una dimensione più rotonda e professionale, senza per questo sconvolgere più di tanto il processo compositivo degli americani.