“Way Of The Dead” è uno dei dischi metal più interessanti del 2003: un impatto folgorante e un’intelligenza compositiva rara, una perizia esecutiva fuori dall’ordinario, un assemblaggio di stili e linee comunicative così diverse eppure tanto fluide e ben amalgamate.
Come la colonna sonora di un film di David Lynch, come lo stridere intorpidito della coscienza di ogni cammino verso obiettivi che stentano a farsi riconoscibili, “Way Of The Dead” si dipana attraverso momenti del tutto colloidali, ma in nessun caso ridondanti o forzati.
Due entità animano il gruppo che ha deciso di chiamarsi come la mafia giapponese: una è quella del metalcore degli ultimi slayer (con più di un rimando all’estro fragile dei Jane’s Addiction), l’altra la sacralità di Miles Davis e Coltrane.
I primi sette pezzi dell’album sono schegge di heavy estremo sporcate da un sax (tenore e contralto) che dona al tutto un alone di sottile inquietudine. L’ottavo brano, intitolato programmaticamente “01000011110011” (codice matematico di cui ignoro del tutto il significato), è una suite (40 minuti circa) di jazz psichedelico dove si incrociano idealmente la liquidità dei Soft Machine e le visioni spirituali di “Love Supreme” di John Coltrane.
Quando il jazz e il metal si incontrano è facile apparire spocchiosi o pretenziosi: l’ibridazione tra la forma musicale che, assieme alla classica, viene considerata la più nobile tra tutte, e quella che, almeno nell’immaginario collettivo, è la più aberrante, è affare per pochi. Mi vengono in mente certi esperimenti di John Zorn, Painkiller e Naked City su tutti, ma in tali deliri era la sperimentazione pura a spuntarla.
Gli Yakuza, pur non scevri da tentazioni demenziali e avanguardistiche, provano a sintetizzare il tutto in forma canzone, risultando in certi casi flebilmente accessibili (“T.M.S.”, “Vergasso”, “Obscurity”, sono brani assolutamente ostici, ma non si avviluppano mai, restano ben ancorati su linee melodiche che tornano sempre, come in una composizione prog, come in una strada che conduce sempre in un vicolo cieco).
Le divagazioni acide del sassofono e i riverberi chitarristici del pezzo posto in chiusura sono difficili da digerire per chi non è avvezzo al jazz. Tanto vale considerare “01000011110011” come la quiete dopo la tempesta, la notte misteriosa dopo la luce caotica, la rassegnazione dopo la battaglia persa, la cupa introspezione dopo la vittoria.
Potrebbe essere un buon viatico per avvicinarsi a un mondo, quello del jazz, che è un universo tra i più complicati e affascinanti mai creati da mente umana.
Vincenzo “Third Eye” Vaccarella