Premesso che è la prima volta che ascolto qualcosa degli Zoroaster, devo dire che il loro quarto lavoro è decisamente interessante. Il trio di Atlanta, con ‘Matador’, ha creato un sound davvero personale, di stampo sludge, con interferenze psichedeliche, che interrompono un doom altrimenti ipnotico, ripetitivo, svogliato, fatto di ritmiche rallentate che sembrano cariche del male di vivere, di rassegnazione che non lascia spazio alla tipica rabbia metallara, né alle emozioni più teatrali e pompose del classico doom. Qui siamo nudi, nella nostra resa dinanzi al destino, confusi, come lo sono i suoni, che sembrano chiudersi in una spirale senza uscita, e che oscillano dal granitico e lento riffing dai toni ribassati, agli sprazzi contorti di elettronica. Dopo l’ottima ‘D.N.R.’, ogni tanto pare di sentire i Depeche Mode (‘Odyssey’), altre volte il grunge più aggressivo dei Nirvana di Nevermind (‘Trident’), ma poi il tutto si complica nell’interludio psichedelico, interamente strumentale, di ‘Firewater’, dove le atmosfere pesanti del metal si fondono con quelle del rock anni settanta… E in chiusura la title track ‘Matador’, con i suoi sette minuti di grigio e inesorabile delirio, ci ricorda che l’arte è fatta di sperimentazione, e premia chi si sforza di osare, pur sapendo di risultare indigesto al primo assaggio.
In sintesi l’album è buono, una fumosa espressione di malinconia psichedelica, in cui si alternano passaggi più incisivi a parti di oblio, in cui l’attenzione dell’ascoltatore scema. Una nota di demerito va alla copertina, decisamente insulsa, e slegata dalle atmosfere del disco, mentre mi sarei aspettata qualcosa più sullo stile dei Baroness.